Diritti

Femminicidio, perché le donne continuano a morire: “Dati falsati, si sottovaluta la violenza degli uomini”

Alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, associazioni ed esperte contestano le rilevazioni diffuse dalla polizia secondo cui ci sono stati solo 32 i casi dall'inizio dell'anno. Anzi, denunciano, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’attenzione dei media al tema il numero supera i 120 ogni anno: “La violenza basata sul genere è di gran lunga la prima causa di morte violenta per le donne. Calano le segnalazioni alle forze dell'ordine, ma non i reati”. Il governo vuole introdurre un codice rosso? "Le leggi ci sono già, il problema è la loro attuazione"

Stupite, critiche, indignate: le esperte di violenza sulle donne – statistiche, avvocate, sociologhe, persone che lavorano sia sul campo o che sulla violenza fanno ricerca da anni – non riescono a capacitarsi che la Polizia di Stato abbia diffuso, in vista della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un rapporto, Questo non è amore, in cui il numero dei femminicidi relativi al 2018 risulta di sole 32 donne morte, perché la gran parte dei 94 omicidi non sono considerati tali. A contestare la cifra è, anzitutto, chi i femminicidi li conta da oltre tredici anni, cioè la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, unica banca dati italiana, visto che nel nostro Paese non esiste ancora un Osservatorio nazionale sulla violenza sulle donne. “Da oltre tredici anni noi raccogliamo i dati dei femminicidi, e lo facciamo basandoci solo sulla cronaca, il che significa che anche i nostri sono ampiamente sottostimati”, spiega Anna Pramstrahler. “Al contrario di quanto sostiene la Polizia, purtroppo, il dato è abbastanza fermo, negli ultimi anni siamo sempre su circa 120 donne uccise all’anno. Da gennaio ci risultano 82 donne uccise, 50 in più del dato del Ministero. Il fatto è che quando analizzi gli omicidi devi sapere esattamente cos’è un femminicidio. Noi utilizziamo la definizione delle Nazioni Unite”.

“Quel dato, anche rispetto alla serie storica degli anni passati, è veramente basso e dunque inverosimile”, dice a sua volta Anna Romanin, Presidente del Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia Romagna e formatrice della Casa delle Donne di Bologna. “Mi chiedo su quale base teorica abbia ragionato il Ministero”. Non è un caso infatti che il rapporto Attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia, stilato nell’ottobre 2018 dalle Associazioni di donne per il Gruppo di Esperti indipendenti (il Grevio) che monitora l’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro violenza nei confronti delle donne abbia esplicitamente sottolineato come il ministero degli Interni non utilizzi “una definizione esaustiva di femminicidio, che possa dare un contenuto sulla qualità dei dati. Anche la recente ricerca svolta dal ministero della Giustizia sulle sentenze emesse è parziale in quanto non analizza in modo approfondito le dinamiche che hanno scatenato l’uccisione”.

Il problema semmai, sostengono coloro che di violenza si occupano, è proprio il contrario: e cioè che il numero delle donne uccise non scende, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’attenzione dei media al tema. “Mentre gli omicidi diminuiscono, i numeri dei femminicidi e degli altri reati violenti sulle donne restano inchiodati”, spiega Linda Laura Sabbadini, statistica sociale pioniera degli studi di genere. Lo conferma anche Giorgia Serughetti, sociologa e ricercatrice, membro del progetto Edv per lo studio e il contrasto della violenza contro le donne (Università Milano Bicocca). “Il problema di fronte a cui siamo è proprio la relativa stabilità del fenomeno, in uno scenario generale in cui gli omicidi sono in calo. La violenza basata sul genere è di gran lunga la prima causa di morte violenta per le donne. Con questo fatto dobbiamo confrontarci”.

Calo dei reati o delle denunce?
Secondo la Polizia di Stato, però, a calare non sono solo i femminicidi, ma anche i cosiddetti “reati spia”, come maltrattamenti in famiglia, stalking, percosse, violenze sessuali. Nel quadriennio 2014-2017, si legge sempre in Questo non è amore, si evidenzia complessivamente “una flessione, con un sensibile aumento dell’azione di contrasto (misurata in termini di denunce e arresti)”. Calerebbero negli ultimi 8 mesi i reati di stalking (-15,5%), i maltrattamenti in famiglia (-4,47%), le violenze sessuali (-6,65%), le percosse (-11,25%). Dati che, nuovamente, vengono messi in discussione da chi si occupa di violenza di genere. “Come si fa a parlare di diminuzione dei reati se ci si basa quasi esclusivamente sulle denunce?”, interviene Raffaella Palladino, Presidente di D.i.Re, l’associazione Donne in rete contro la violenza, costituita da oltre 80 centri in Italia. “I dati della polizia segnalano una diminuzione delle denunce, non del fenomeno”, spiega Giorgia Serughetti, “ma non si può stabilire nulla a partire da questi dati”. Sempre il Grevio, infatti, mostra come sia il Ministero dell’Interno che quello di Giustizia “abbiano infatti unicamente a disposizione i dati delle denunce e che in Italia non esista un sistema di rilevazione nazionale delle donne che si rivolgono, a causa di situazioni di violenza, ai servizi sanitari (medicina di base, consultori, pronto soccorso, strutture ospedaliere, medicina specialistica, Dsm, Sert ecc.) e sociali (servizi sociali pubblici e privati)”. A livello non istituzionale, continua il Rapporto, “l’unica rilevazione sulle donne vittime di violenza accolte dai Centri antiviolenza è quella annuale condotta dall’associazione nazionale dei Centri antiviolenza D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, relativa alle donne accolte dalle 81 associazioni aderenti alla rete”.

Diminuisce la violenza leggera, aumenta quella grave
L’unico Istituto che possiede dati di tipo epidemiologico, ovvero sulla diffusione effettiva di un fenomeno, è l’Istat, che però sul tema ha fatto due ricerche nel 2006 e nel 2014. Nell’ultima indagine, si rilevava come negli ultimi 5 anni il numero di donne che hanno subìto almeno una forma di violenza fisica o sessuale ammontasse a 2 milioni 435 mila, l’11,3% delle donne dai 16 ai 70 anni. Quelle che hanno subìto violenza fisica sarebbero 1 milione 517 mila (il 7%), le vittime della violenza sessuale sono 1 milione 369 mila (il 6,4%); le donne che hanno subìto stupri o tentati stupri sono 246mila, (1,2%). La violenza nelle relazioni di coppia, negli ultimi 5 anni (sempre in relazione al 2014, però), ha riguardato il 4,9% delle donne (1 milione 19 mila), in particolare il 3% (496 mila) delle donne attualmente con un partner e il 5% (538 mila) delle donne con un ex partner. Considerando solo le donne che hanno interrotto una relazione di coppia negli ultimi 5 anni, la violenza subìta sale al 12,5%. Rispetto all’indagine precedente, dice l’Istituto, ci sono segnali di miglioramento – diminuiscono la violenza fisica e sessuale da parte di partner attuali e da parte degli ex partner, e calano la violenza sessuale e le molestie sessuali – ma “non si intacca lo zoccolo duro della violenza nelle sue forme più gravi (stupri e tentati stupri) come pure le violenze fisiche da parte dei non partner mentre aumenta la gravità delle violenze subite”. Una dinamica che le esperte di violenza hanno ben chiara. “Quello che risulta, purtroppo”, spiega Linda Laura Sabbadini, “è una diminuzione della violenza più lieve, come quella psicologica. Ma stupri e omicidi non scendono. Paradossalmente diminuisce il complesso delle violenze e in particolare quelle lievi, ma aumenta la gravità delle altre. Molte piu donne dichiarano di aver avuto paura per la propria vita. la crescita della coscienza femminile fa sì che piu donne specie giovani interrompano l unione prima dell’ escalation alle prime avvisaglie. Ma  fa sì anche che le reazioni degli uomini alla voglia di liberarsi dalla violenza delle donne piu mature che già stanno vivendo l’escalation  da parte di uomini che vogliono dominare e possedere la loro compagna siano molto più dure. E così diminuisce la violenza nel complesso e aumenta il rischio di femminicidio. Ciò deve portare ad essere più efficaci  nelleazioni le forze dell’ordine e piu attivi nella prevenzione le politiche”. Non è un caso, infatti, come ben sottolinea la penalista Teresa Manente, avvocata specializzata nella difesa dei diritti della vittima di violenza di genere, che “nella maggior parte dei casi di femminicidio le donne o avevano già denunciato, ma il pericolo è stato sottovalutato, o non hanno denunciato per paura di ulteriori violenze, vivendo in un contesto sociale che ancora le colpevolizza e giustifica i maltrattanti”.

Leggi non attuate e fondi che latitano
Cosa bisognerebbe fare, allora, perché la violenza diminuisca realmente (e con essa, anche i numeri dei femminicidi)? Abbiamo bisogno di nuove misure normative? “No. Le leggi ci sono e ciò è stato evidenziato in ogni sede, dalla Corte europea di Strasburgo all’ONU. Il problema è la loro attuazione”, spiega la penalista Manente. “Il cosiddetto bollino rosso di cui parla il governo è in realtà già previsto dal codice di procedura penale, che a seguito della legge n.119/2013 prevede una corsia preferenziale di trattazione dei procedimenti per i reati di stalking, violenza sessuale, maltrattamenti. Il punto non è quindi la difficoltà di punire o l’assenza di leggi, ma è la sottovalutazione della pericolosità della violenza maschile, della gravità delle condotte e dell’entità dei danni provocati, da cui derivano sentenze che applicano pene irrisorie e riconoscono attenuanti negate dai fatti. A ciò si aggiunge che le donne hanno bisogno e chiedono protezione nell’immediatezza della querela: una risposta superficiale o addirittura assente delle autorità rinforza i maltrattanti che di conseguenza aggravano la loro condotta perché avvalorati nella loro pretesa di impunità”. E poi, ovviamente, c’è il problema dei fondi destinati ai centri antiviolenza. Un’analisi della loro ripartizione e dell’efficacia della legge 119/2013 è stata messa in rete da Action Aid. Secondo l’organizzazione, non è possibile stabilire se le risorse stanziate per il 2015-2017 “siano effettivamente rispondenti ai bisogni di prevenzione del fenomeno della violenza di genere e della protezione delle donne che la subiscono”. Molto chiaro invece è il ritardo nell’erogazione dei fondi a livello centrale e regionale, che “mette a rischio la continuità e la qualità dei servizi e dei programmi” dei centri. Centri che, come spiega l’Istat, che ieri ha diffuso alcuni dati relativi al numero di donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza nel 2017, hanno accolto ben 49.152 donne, pur soffrendo di mancanza di posti ed essendo la metà delle operatrici totalmente (e ingiustamente) volontarie. “Anche quando i soldi ci sono insomma”, spiega Raffaella Paladino, “non vengono distribuiti perché mancano i decreti attuativi – basti pensare che non è stato ancora distribuito il fondo del 2017- oppure perché i criteri di assegnazione sono scarsamente trasparenti e i soldi finiscono anche in mano a realtà che non hanno esperienza”.

L’altro fronte riguarda la prevenzione culturale e sociale. “C’è stato sicuramente uno sforzo notevole e diffuso, sia di sensibilizzazione, sia di educazione e formazione, a vari livelli”, spiega la sociologa Serughetti. “Nonostante questo però non è stato implementata nessuna azione sistematica, che vada dall’educazione della prima infanzia fino alla trasformazione di comportamenti e atteggiamenti in età adulta. Inoltre, la trasformazione profonda della mentalità comune – che considera le donne come qualcosa che l’uomo ha diritto di possedere e che quindi non accetta di vedere allontanarsi – richiede tempi lunghi e un lavoro complesso, che non avviene in pochi mesi o in pochi anni”.

Non aiuta in questo senso l’ideologia che il governo, soprattutto la Lega, sta mettendo in campo. “Se passa il ddl Pillon possiamo chiudere i centri antiviolenza e dire alle donne di smettete di denunciare”, dice Anna Romanin, mentre Serughetti conclude: “La politica dà segnali contraddittori che non aiutano a stabilizzare politiche di prevenzione e contrasto. Solo un esempio: Giulia Bongiorno, che propone misure come il “bollino rosso” per l’esame delle denunce, ma al contempo difende l’esistenza della (inesistente) sindrome di alienazione parentale, che dà la colpa alle madri se c’è rifiuto dei minori di vedere i propri padri – cosa che spesso accade perché questi padri sono, appunto, violenti”.

In una prima versione dell’articolo il rapporto sull’Attuazione della Convenzione di Istanbul era stato attribuito inizialmente al “Grevio” anziché dalle associazioni di donne che hanno elaborato il dossier proprio per il Grevio. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.