Musica

Smashing Pumpkins, il disco che tutti avremmo voluto ascoltare e mettere presto da parte

A riprova di quanto poco abbia provato (e sia riuscito) ad andare oltre gli Smashing Pumpkins quel personaggio bizzarro che è sempre stato Billy Corgan, basti ricordare come nel 2005 – a seguito dello scioglimento della sua (unica) creatura – ricorse a un annuncio sul prestigioso Chicago Tribune pur di mettere di nuovo assieme baracca e burattini assoldando nuovi illustri sconosciuti. Sì, perché nonostante avesse nel frattempo provato a tirar su una sua personalissima Lega di wrestling e acquistato una sala da tè solo per allietare i presenti con curiose – e forse inopportune – riletture in synth modulare del Siddhartha di Herman Hesse, a Corgan non sono mai rimasti che gli Smashing Pumpkins.

E così, a quasi 20 anni dal naufragio degli Zwan e a 12 mesi dalla sua abbastanza ispirata – non c’è che dire – seconda prova solista (Ogilala), una delle penne di maggior successo del rock alternativo made in Usa torna con un nuovo album, coadiuvato – eccezion fatta per l’ex bassista D’Arcy Wretzky – dai compagni di sempre: il chitarrista James Iha e il batterista Jimmy Chamberlin. Shiny And Oh So Bright: Vol. 1: No Past. No Future. No Sun riprende nelle intenzioni il discorso interrotto col capolavoro indiscusso Mellon Collie And The Infinite Sadness, trasportando nel 2018 le sonorità e le atmosfere degli anni Novanta senza per questo calcare troppo la mano. D’altronde, non è un mistero, la band ha fatto tappa lo scorso mese anche in Italia portando dal vivo i suoi primi cinque album, fermandosi esattamente al 2000 con l’ultimo – all’epoca – Machina / The Machines Of God.

E se con le dovute differenze quest’operazione nostalgia esalta al punto da non dispiacere, il merito è anzitutto del medico: il produttore Rick Rubin. Personaggio a dir poco imprescindibile della musica di qualsiasi estrazione e genere, Rubin ha avuto il merito non solo di trainare definitivamente verso il successo band del calibro di Red Hot Chili Peppers, Slayer e System Of a Down – solo per citarne alcune – ma anche resuscitare sapientemente artisti e gruppi la cui carriera sembrava essere giunta a un punto di non ritorno. È stato così per i Metallica di Death Magnetic o il Johnny Cash grazie a lui protagonista della fortunata serie American Recordings.

Lo si percepisce dall’attacco della prima Knights Of Malta, che sembra strappata un po’ all’album Adore, un po’ ai Verve, proseguendo con la seconda Silvery Sometimes (Ghosts): quasi una costola del classico 1979. L’intento è chiaro, ed è quello di guidare gli Smashing Pumpkins verso quello che sanno fare meglio: scimmiottare cioè loro stessi con una punta di novità, che – per una band come questa che era finita negli anni vittima dei capricci del suo leader – risiede non nelle canzoni ma nella coerenza di un disegno che è il migliore possibile, dati gli attori in gioco.

L’isteria e le paranoie di Corgan si fanno quindi da parte in favore di una consapevolezza atta a portare a termine l’album canzone dopo canzone, caricando finalmente sulle spalle degli altri due esecutori il peso di una recita che rischia – sempre sul filo del rasoio – di trasformarsi in farsa. Solara e Marchin’ On spingono un po’ più, quel tanto che serve a non dimenticare echi sì passati ma che, ricamando e all’occasione, possono tornare giusto per sparigliare un po’ le carte sul tavolo. Godibili anche With Sympathy e Alienation, a conferma e restituzione di un lotto il cui valore sarà da valutare, e verificare, a partire dalla seconda prova in studio di questa ennesima fase del gruppo. In uscita, pare, già il prossimo anno.

Shiny And Oh So Bright: Vol. 1: No Past. No Future. No Sun è il nuovo vecchio album degli Smashing Pumpkins: il disco che tutti avrebbero voluto ascoltare ma che tutti pensavano di mettere presto da parte. Non rientra – e non ne vedrei altrimenti motivo – tra le migliori uscite dell’anno, ma si affaccia un paio di piani sopra il purgatorio. Un’azione rituale, a tratti toccante, poggiata sapientemente all’interno delle comfort zone di ognuno di noi. Otto canzoni che prestano le loro voci a un’epoca lontana, nell’illusione che questa sia sopravvissuta e giunta fino ai giorni nostri.