Società

Razzismo e italiani, la ‘brava gente’ non ha memoria

“In questo locale è vietato l’ingresso agli animali e ai cincali“. Fino agli inizi degli anni 80, alcuni locali della Svizzera orientale riportavano questi cartelli con disinvoltura. Era una modalità razzista raffinata, perché pochi sapevano (tranne gli italiani tutti) chi fossero i cincali. L’appellativo viene dal gioco con cui gli italiani passavano il tempo, ma col tempo ha assunto una vera e propria identificazione dispregiativa degli italiani che vivevano in Svizzera. Se si chiede a qualsiasi italiano almeno 60enne che è vissuto in Svizzera, avrà un racconto da donarvi su quei tempi in cui le risse d’orgoglio, fuori da quei locali, erano leggendarie. Noi, italiani cincali, siamo poi diventati “ratti” per la Lega ticinese – ultimamente “gibò” (nome di un locale di Leuca) per gli zurighesi, per via dell’adesivo o i tatuaggi che i giovani salentini esibiscono spesso.

Comunque non ci sono locali a noi interdetti, anzi, forse ci sono più locali italiani che svizzeri esistenti in tutta Europa. I tedeschi amavano identificarci con l’appellativo spaghettifresser, anche questo appellativo razzista raffinato, perché si fonda sulla differenza dei verbi essen, mangiare e fressen, divorare o mangiare riferito ad animali. Per gli uomini essen, per gli animali fressen. Ergo gli italiani mangiano spaghetti come animali. Però, che raffinata differenza linguistica. Si potrebbe continuare in questa analisi semantica comparata per far comprendere ai nostri ragazzi che il razzismo è vivo ancora oggi e si manifesta nelle forme semantiche più disparate.

Nelle scorse settimane, dopo la orribile vicenda di Desirée, è comparsa sui social la propaganda di un locale a Susa che riportava la dicitura: “In questo locale è vietato l’ingresso a nigeriani e senegalesi”. Poco tempo fa abbiamo assistito alle vicende discriminatorie nelle mense di alcune città, e lo slogan “prima gli italiani” sembra il refrain di questa epoca orrida. Il razzismo più è subdolo più riesce a insinuarsi nell’anima delle persone. Diventa un’abitudine, come accadde ai tedeschi durante il nazismo. Ti impedisce di vedere, di credere e alla fine dubiti anche delle evidenze reali. Elimina quell’elemento umano che abbiamo nel nostro dna, cioè la nostra tanto umana capacità di rispecchiarci nell’altro.

Mia figlia, quando aveva quattro anni, tornò a casa dall’asilo piangendo perché non riusciva a capire perché la sua amichetta aveva la faccia colorata di marrone. Piangeva perché la faccia colorata di marrone l’avrebbe voluta anche lei. Gli dissi che le facce nell’umanità sono colorate diversamente, perché se fossero tutte dello stesso colore i papà non riuscirebbero a riconoscere i propri figli. Mi rispose: “Come i fiori?”. Sì, come i fiori, risposi: sono diversi, colorati e tutti belli. Quando il razzismo entra nell’anima di un popolo, quel popolo perde il diritto di chiamarsi Popolo.