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Carovana migranti, l’obiettivo è entrare in California. E Trump sospende per 90 giorni il diritto d’asilo agli irregolari

Il gruppo più numeroso di caminantes ha superato Città del Messico e punta verso ovest, per evitare i territori dominati dai narcos. Il presidente Usa risponde con un ordine esecutivo firmato il 9 novembre che revoca la possibilità di ottenere la forma più importante di protezione per chi entra illegalmente nel Paese

Dopo un mese di cammino, la carovana che risale il Centroamerica è arrivata quasi a metà percorso. Nella mattinata di domenica scorsa, la prima e più consistente onda – 6.500 persone secondo le ultime stime, tra cui almeno 300 bambini – ha lasciato Santiago de Quéretaro, 220 km a nord di Città del Messico. A dire il vero, la metà geografica tra la città honduregna di San Pedro Sula, da dove è partita la marcia, e il punto più vicino del confine Usa (McAllen, in Texas) è già stata superata da tempo, ma i migranti non sceglieranno la via più breve. I portavoce hanno dichiarato che il gruppo si dirigerà a ovest, verso il confine tra Tijuana e San Diego, in California: un percorso lungo oltre il doppio di quello per McAllen, che dista 860 chilometri. C’è un motivo: gli Stati messicani da attraversare nel cammino verso la California sono considerati molto più sicuri di quelli a nord-est (Nuevo León, Tamaulipas, Chihuahua), dove i cartelli criminali di Juárez e dei Los Zetas rapiscono e uccidono chi non ha denaro per pagare il “pedaggio” attraverso i propri territori.

La parte più difficile, però, è alle spalle. Nessuno tra le migliaia di latinos in marcia ormai dubita di riuscire ad arrivare, prima o poi, al confine degli Stati Uniti. E se n’è reso conto anche Donald Trump: dopo le bellicose minacce di schierare l’esercito in armi alla frontiera – ha parlato prima di 800 soldati, poi diventati 5mila e infine 15mila – il presidente Usa ha preso una decisione se possibile ancor più drastica nei confronti dei caminantes. Con un ordine esecutivo firmato il 9 novembre, ha sospeso per 90 giorni (a decorrere da sabato 10) il diritto d’asilo per chiunque faccia ingresso illegalmente negli Stati Uniti attraverso il confine sud, eccezion fatta solamente per i minori non accompagnati.

Il provvedimento contraddice in modo frontale il Refugee Act del 1980, incorporato all’Immigration and Nationality Act (la legge statunitense sull’immigrazione) che garantisce il diritto d’asilo a ogni persona presente in territorio americano, in qualsiasi modo vi sia entrata. Per sospendere tale diritto, Trump ha fatto ricorso ai poteri emergenziali che gli attribuisce la Costituzione: un’emergenza che consisterebbe, si legge nel decreto, nell’”atteso arrivo al confine meridionale di un consistente numero di stranieri, soprattutto centroamericani, che non sembrano avere basi legali per essere ammessi nel nostro Paese”.

Questa conclusione viene tratta sulla base dell’”esperienza passata, che ha dimostrato come una significativa maggioranza di coloro che tentano di entrare non hanno diritto all’asilo. Molti sono entrati in Messico illegalmente, alcuni con violenza – prosegue Trump – e hanno respinto l’opportunità di ottenere asilo e benefici in quello Stato. L’arrivo di grandi quantità di stranieri causerà un sovraccarico nel nostro sistema di immigrazione e di asilo, e farà sì che migliaia di persone si riversino all’interno degli Stati Uniti. Pertanto – conclude – mi trovo costretto a prendere provvedimenti urgenti per proteggere l’interesse nazionale, e per garantire l’effettività del sistema d’asilo nei confronti di chi ne ha diritto”.

L’effetto immediato della mossa è che fino al prossimo 9 febbraio l’unico modo per richiedere asilo politico negli Usa – per chi entra da sud – sarà presentarsi ad uno dei 48 “ports of entry”, i varchi legali per l’entrata nel Paese, già ampiamente sovraccarichi. Chi farà ingresso nel Paese per altre vie – ad esempio attraversando il Rio Grande, al confine tra Texas e Coahuila – dovrà essere rimpatriato. Fino adesso, invece, anche gli immigrati irregolari potevano fare richiesta d’asilo, a patto di convincere, in un colloquio preliminare, un ufficiale dell’immigrazione del proprio “credibile timore” di subire persecuzioni nello Stato di provenienza. Se il colloquio andava a buon fine, al migrante era concesso di rimanere nel Paese finché un giudice federale non avesse preso in esame il suo caso.

Una normativa che a Trump non è mai andata giù: “La più grossa scappatoia che attira gli stranieri al nostro confine è la possibilità di fare domande d’asilo inconsistenti o fraudolente”, ha detto in un comizio il 1° novembre. “Gli viene data una piccola dichiarazione da leggere, e loro la leggono. E così, tutto d’un tratto, diventano richiedenti asilo”. Cambiare la normativa sull’immigrazione è sempre stato uno dei cavalli di battaglia del tycoon. Dopo aver perso la maggioranza al Congresso a seguito delle elezioni di midterm, però, l’unico modo per farlo è stato bypassare il Parlamento attraverso un ordine esecutivo. Nel decreto si specifica che le misure potranno essere ritirate prima della scadenza dei 90 giorni in caso di raggiungimento di un accordo con il Messico (dove, dal primo dicembre, si insedierà il neoeletto presidente Lòpez Obrador) che preveda il respingimento oltreconfine degli irregolari.

Chi entra illegalmente negli Usa conserva il diritto di chiedere due forme alternative di protezione, entrambe, però, più restrittive rispetto all’asilo. Una è il withdrawal of removal, letteralmente “ritiro dell’espulsione”, un provvedimento giudiziale che, appunto, sospende l’ordine di espulsione emesso dal governo. Per ottenerlo, però, il migrante deve dimostrare la “rilevante probabilità” (non solo “credibile”, come per l’asilo) di subire persecuzioni nel proprio Paese d’origine, una probabilità che la giurisprudenza interpreta come maggiore del 50%. Soprattutto, chi ottiene il ritiro dell’espulsione non avvia nessun percorso finalizzato a ottenere la cittadinanza o il permesso di soggiorno permanente negli Usa (green card), come invece avviene per l’asilo. L’altra protezione che è possibile ottenere, seppur in casi molto rari, è quella fornita dalla Convenzione internazionale contro la tortura, che scatta, però, solo nei casi in cui il migrante sia appunto in grado di dimostrare il rischio di subire torture in patria.

Appena qualche ora dopo la promulgazione dell’ordine esecutivo, l’American civil liberties union (Aclu, una delle ong americane più famose) lo ha impugnato di fronte a un tribunale federale, sostenendo l’assenza dei requisiti emergenziali in base ai quali è stato emesso. “Questo decreto mette a repentaglio il principio di legalità nel nostro Paese e rappresenta un grande fallimento morale, perché tenta di togliere una protezione a persone che fuggono da persecuzioni”, ha dichiarato Omar Jadwat, capo del progetto Aclu per i diritti degli immigrati. Per aumentare le chance di una pronuncia favorevole, l’associazione si è rivolta alla Corte distrettuale della California del Nord, celebre per le sue posizioni liberali. Ad agire formalmente in giudizio, per questioni di competenza territoriale, sono state quattro ong californiane, supportate dall’Aclu. Il governo ha messo in conto un’eventuale pronuncia negativa del Tribunale federale, ma conta di portare il caso di fronte alla Corte suprema, attualmente a maggioranza repubblicana (5 giudici contro 4), che lo scorso giugno avallò un provvedimento molto simile, il “Muslim ban” voluto da Trump, che impediva l’ingresso negli Usa a chiunque provenisse da cinque paesi a maggioranza islamica (Iran, Libia, Somalia, Siria e Yemen).