Cultura

Julian Zhara, è nato un poeta

La nascita di un poeta commuove sempre. La sua investitura ufficiale, piuttosto. Julian Zhara, giovane poeta destinatario della lingua degli antenati, nato a Durazzo. Con il suo Vera deve morire, per Interlinea, nella collana curata da Franco Buffoni, si guadagna il merito di rompere la metrica, l’assedio dell’endecasillabo, il confine rigido dove il suo idioma, l’albanese – della memoria e dell’inconscio – incontra  la lingua della nuova vita, del letterato veneziano, della quotidianità, del nuovo tempo.

Le sue intuizioni sono bilingue, folgoranti, impregnate di nostalgia. Così è in questo evocativo e tragico “Vera deve morire”, dove si consuma l’amore nell’impossibilità di realizzarlo, il soggetto terzo, tra due corpi che rifuggono o rifulgono. Il poema si suddivide in quadri, che Julian chiama canti. Noi dovremmo vedere Vera, la sua bocca agitare sillabe, muoversi in differita, sparire come nei sogni, in dissolvenza, come in certi film, il frame sbagliato. Julian realizza il suo cortometraggio utilizzando il verso libero, ispirato ai grandi cineasta, come Wong Kar Wai (in The mood for love, nda).

La poesia contemporanea non ha un’etichetta, è anarchica,  Julian lo sperimenta, suggestionato dal potere della tradizione orale, dalla contaminazione musicale, da quel che definisce “spoken music”. La musica. La musica la conserva nel suo verso severo in tutta la sua memoria e insieme libero. La memoria del verso spesso balbetta, affiora tentennando, ossequiosa, dolente, discreta, la lingua della sua terra. L’Albania. “L’albanesità” di Julian lo rende estraneo al già sentito. Sarà che la sua figura di bambino sopra un covone di fieno ci compenetra oltremodo, nell’aria il tumulto e il sentore della polvere da sparo. Il suo sguardo lanciato oltre le colline. Ci par di udire il sibilo di un kalashnikov.

Siamo fatti dei luoghi da cui fuggiamo. Noi dovremmo sorprendere Vera, l’oggetto dell’amore. E invece vediamo Julian. La sua nostalgia, le sue “pupille spossate” dove finiscono le cose.  “(…) dove finiscono palpebre le cose si addensano/(…)e tutte le cose si annidano dentro le palpebre, giusto per prendere fiato e ridare agli occhi il tempo di estrarre la scorza dai nomi/”. L’amore è il mood ossessivo. L’amore è la considerazione dell’assenza. Non c’è una sola ossessione da coltivare. Julian scrive: “Vera, un racconto del maudit Villiers de L’Isle Adam, che mi ossessiona dall’adolescenza”.

Eppure ogni volta, ad ogni verso, torniamo al medesimo vuoto, lo spazio non occupato, la memoria in tensione, il luogo da cui fugge il poeta, le sue pupille spossate, gettate oltre la collina o su un campo veneziano, su una tratta ferroviaria, la fronte sul vetro sporco, i capannoni industriali, la nuova vita. La lingua dei nonni che sale simile all’onda tumultuosa e indefinibile che si perde nei sogni fino a diventare incubo.

C’è abbastanza per dire e confermare la nascita di un poeta, che ci commuove sempre.