Cosa Nostra

Trattativa, la procura non fa appello: definitiva l’assoluzione di Mancino. Lui: “Felice ma non richiamerei D’Ambrosio”

L'ex presidente del Senato era accusato di falsa testimonianza: per lui i pm avevano chiesto la condanna a sei anni di carcere. L'ultimo giorno per impugnare la decisione dei giudici di primo grado era oggi: i pm, però, non hanno depositato alcun appello. E l'assoluzione del politico è dunque diventata definitiva. Appellano la sentenza gli avvocati dei sette imputati condannati il 20 aprile scorso per il Patto Stato - mafia

Deo gratias“. A rispondere al telefono di Nicola Mancino – come spesso accade – è la moglie, che commenta in questo modo l’assoluzione diventata definiva per il marito. La procura di Palermo, infatti, non ha appellato la sentenza della corte d’Assise sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. L’ex presidente del Senato era accusato di falsa testimonianza: per lui i pm avevano chiesto la condanna a sei anni di carcere. L’ultimo giorno per impugnare la decisione dei giudici di primo grado era oggi: la procura, però, non ha depositato alcun appello. E l’assoluzione di Mancino è dunque diventata definitiva. “Non sapevo dell’assoluzione definitiva. Me lo sta dicendo ora lei: sono felice. Ma io dovevo essere processato da un tribunale monocratico, non dalla corte d’Assise”, dice l’ex presidente del Senato al fattoquotidiano.it. Nelle motivazioni della sentenza i giudici spiegano che lo hanno assolto nonostane le sue “sollecitazioni” a Loris D’Ambrosio, consigliere dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, fossero da considerare “un’iniziativa certamente censurabile”, inammissibile e inopportuna. “Quelle telefonate al compianto consigliere D’Ambrosio? Non erano illegali ma come ho già detto in aula non le rifarei più, no, assolutamente”, spiega l’ex politico della sinistra Dc.

Hanno depositato appello, invece, gli avvocati di altri sette imputati del processo. Storica la sentenza emessa dalla corte presiduta da Alfredo Montalto il 20 aprile scorso: i giudici hanno condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Marcelo Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Sono tutti stati riconosciuti colpevoli di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. Ha depositato appello anche uno dei testimoni principali del processo, cioè Massimo Ciancimino condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. Il figlio di don Vito era stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescritte, come avevano richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.

Tornando a Mancino, l’ex presidente del Senato era finito sotto processo perché accusato di aver detto il falso quando aveva negato che Claudio Martelli gli avesse parlato delle manovre del Ros di Mori con Ciancimino. Nelle motivazioni della sentenza i giudici optano per un pareggio: non mente Martelli che potrebbe non ricordare “con precisione e completezza” quanto riferito a Mancino. Ma non mente neanche Mancino che considerava i contatti tra carabinieri e mafia “una problematica per lui, in quel momento, sicuramente secondaria”. Il 4 luglio del 1992 il ministro dell’Interno e quella della Giustizia parlavano della Trattativa ma non si capirono. Due settimane dopo ammazzarono Paolo Borsellino.

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