Mafie

Ciancio non poteva far tutto da solo. A Catania il suo esercito lo sostiene

In queste ultimi giorni a Catania i distinguo si sono alternati ai silenzi. La confisca di 150 milioni di patrimonio a Mario Ciancio Sanfilippo, soprattutto la confisca con sequestro del quotidiano La Sicilia, e delle reti televisive controllate dall’ex presidente della Fieg – caso unico, sino ad ora, di organi di informazioni confiscati perché, secondo l’accusa mossa dalla DDA e condivisa dal giudice di primo grado, la linea politica di quel giornale era funzionale a garantire gli interessi di Cosa Nostra – in un altro luogo, con un altro editore avrebbe dovuto avere la forza dirompente di uno tsunami.

A Catania si tace e, nei rarissimi casi nei quali qualcuno apre bocca lo fa per apporre distinguo, per preoccuparsi soprattutto dei posti di lavoro che, secondo un consumato luogo comune, sarebbero sempre a rischio non appena al padrone accusato di mafia si sostituisce un commissario espressione dello Stato. Gioco vecchio e consumato, che ha visto il sindaco di Catania, tanto preoccupato del futuro de La Sicilia da scordarsi di dire una parola sul fatto che una Procura e poi un giudice, dopo ampia e approfondita valutazione, sostengono che i principali organi di stampa della sua città venivano scritti e stampati per favorire la mafia.

Attentissimo alla sicurezza il signor sindaco Salvatore Pogliese, zelante al punto da emettere draconiane ordinanze contro gli homeless, appare distretto e confuso quando si tratta di fatti di mafia. Sulla stessa lunghezza d’onda il suo predecessore Enzo Bianco – le cui intercettazioni con Ciancio finite nel processo rappresentano un compendio della sudditanza della politica rispetto agli interessi milionari di Ciancio e dei suoi dante causa – che non trova di meglio da fare che pubblicare un post su Facebook denunciando il degrado delle siepi e delle aiuole cittadine. Come dire “il problema della Sicilia è… il traffico”.

Tace Confindustria (si quella della legalità) che continua a tenere Ciancio tra i suoi associati. Parla invece l’Ordine dei giornalisti siciliano – quello che aveva cacciato per morosità Riccardo Orioles, riammettendolo solo dopo che si era scatenato un putiferio nazionale – protagonista di una singolare crisi di identità. Da un lato si costituisce parte civile nel processo contro Ciancio, dall’altro, nonostante il rinvio a giudizio per un reato infamante come il concorso esterno in associazione mafiosa e adesso la confisca dei beni, non ha sentito il dovere, etico morale, la dignità si potrebbe dire, di cacciare Ciancio dall’Ordine, o almeno di  sospenderlo dall’albo. Ma Ordine e sindacato sono intervenuti subito per preoccuparsi anch’essi del futuro lavorativo dei giornalisti de La Sicilia.

Tale preoccupazione potrebbe essere legittima se la confisca avesse messo a rischio i posti di lavoro, ma non è così. Le aziende di Ciancio erano già da tempo messe male e non certo a causa dei giudici. Questa solidarietà sembra invece un tentativo di assolvere chi in quel giornale ha servito fedelmente i voleri di Ciancio. Perché un giornale non lo fa solo il direttore, non lo fa solo il capocronista. Lo fanno soprattutto i redattori. Una truppa che per cinque decenni è stata muta, obbedendo con zelo, spesso anticipando i desiderata, ad una linea editoriale che – lo dicono i magistrati – era funzionale agli interessi di cosa nostra catanese. Un giornale che è stata un’accademia del silenzio, della mistificazione. Dove si praticava una narrazione che era solo funzionale a “mettere la sordina” – uso le parole del procuratore Carmelo Zuccaro – qualunque cosa potesse disturbare gli interessi di Ciancio e non garantisse un racconto semplificato e innocuo della presenza mafiosa  a Catania. Si scrivevano decine di pezzi sulla mafia militare, sui “canazzi di bancata”. Una cronaca nera spicciola, fatta del lugubre conto delle “ammazzatine”. Ma guai a raccontare altro.

Per decenni Catania è stata la città dove la mafia non esisteva, nella quale il signor Benedetto Santapaola era solo un rispettabile commerciante di automobili e dove prefetti, sindaci e questori facevano la fila per brindare con lui. Quella Catania aveva il suo giornale ed era il giornale di Ciancio scritto dai giornalisti di Ciancio. Era il giornale che indicava piste improbabili per l’assassinio di Giuseppe Fava. Il quotidiano che pubblicava nome, cognome, indirizzo catanese della famiglia e carcere di detenzione del pentito che aveva annunciato di far rivelazioni sull’assassinio di Fava, che pubblicava una pagina di bugie per screditare il pentito Maurizio Avola che manderà finalmente all’ergastolo gli assassini di Pippo Fava.

Questi sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare altri e altri ancora. Mi chiedo ma tutto questo Ciancio poteva farlo da solo? Quale resistenza si è avuta in quel giornale nei cinquantuno anni del regime di Mario Ciancio Sanfilippo? La risposta la danno gli stessi giornalisti de La Sicilia che riuniti in assemblea l’indomani della confisca del loro giornale e poche ore dopo le dimissioni di Ciancio, con felice penna stilano e approvano un comunicato nel quale dicono testualmente:  “Al direttore Mario Ciancio Sanfilippo, che nei decenni ha portato avanti questa testata con orgoglio, con passione e, soprattutto, con grande umanità, va il nostro affettuoso ringraziamento, certi che sarà in grado di chiarire la sua posizione giudiziaria”.

A questa gente si dovrebbe dare solidarietà?