Cinema

Sulla mia pelle, mi è sembrato di morire un poco alla volta insieme a Stefano Cucchi

Non è stato per niente facile vedere Sulla mia pelle senza provare ogni tanto l’impulso di alzarmi dalla poltrona e uscire fuori dalla sala, dal cinema, da tutto quell’orrore, desiderando di tornare presto alla realtà. Il punto è che questo film è la realtà, cruda e insopportabile e mentre le lacrime scendevano copiose, cercavo disperatamente di soffocare i singhiozzi.

Il film racconta gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi prima di morire in carcere nell’ottobre del 2009 per cause che riconducono a un violento pestaggio avvenuto proprio durante la sua permanenza in prigione e che ad oggi, grazie alla commovente tenacia di Ilaria Cucchi che non ha mai rinunciato a lottare per ottenere giustizia, vede implicati cinque carabinieri, rinviati a giudizio dalla procura di Roma.

La straordinaria regia di Alessio Cremonini racconta in maniera delicata e attenta gli ultimi giorni di Stefano, interpretato magistralmente da Alessandro Borghi, che ha regalato al cinema italiano un’interpretazione dal respiro internazionale. In tutto il film non c’è una sola scena di violenza, ma non è necessario, basta la pelle di Stefano a raccontare il dolore, l’ingiustizia, l’agonia. E lo fa così bene che sembra di sentir bruciare dentro, di percepire ogni minimo spasimo, sembra di morire poco alla volta insieme a lui nel disperato e incerto tentativo di urlare la verità. Su quella pelle piangono senza conforto i genitori, con un grande Max Tortora nel ruolo del padre e la coraggiosissima sorella Ilaria, interpretata da una bravissima Jasmine Trinca.

Sulla mia pelle è un film sulla solitudine e sull’attesa straziante, ricco seppur misurato, che non giustifica né accusa, semplicemente racconta con rispettosa attenzione la storia di Stefano, senza banalizzare nulla e senza esaltare nulla. Allo stesso tempo però è di una tale profondità che si ha quasi la sensazione di percepire ogni singolo battito del suo cuore, ogni più piccolo e affannato respiro, fino alla fine. Questa profonda connessione col dolore di Stefano, con la sua infinita solitudine, restituisce finalmente umanità a quella pelle martoriata, a quel corpo scarno e ci mostra Stefano Cucchi per quello che realmente era, senza mai farne un martire. E qui risiede gran parte del senso del film: il famoso “stay human”, il vero “cum patior”(patire insieme), ciò di cui si avrebbe davvero bisogno per far sì che nessuno pensi di potersi ergere a giustiziere e che anche chi sbaglia abbia la possibilità di redimersi. Magari in carcere, ma senza morirci.

Andate tutti a vederlo. È importante.