Cronaca

Ponte Morandi, quella manciata di minuti che mi ha salvato la vita

Una manciata di minuti: essere salva per via della tardiva corsa al supermercato di un ospite improvviso. Il giovane maestro francese di origini algerine, nipote di un’amica, arriva la sera del 13 agosto, in cerca di ospitalità, mentre a Genova l’allerta per il giorno dopo da gialla diventa arancione. Una mattina come un’altra a metà dell’estate: la vigilia di ferragosto si apre con una pioggia lieve, ma già verso le 10,30 comincia a farsi burrasca.

Gabriel ha trovato un provvidenziale bla bla car che dal ponente genovese lo può recapitare direttamente a Nizza: una bella fortuna, visto il faticoso collegamento ferroviario. E poi c’è anche il costo: dai 9 agli 11 euro contro i 25 errotti di Trenitalia, senza contare il cambio e il rischio di perdere la coincidenza. Io, che devo tornare in Piemonte ad Altradimora, mi offro volentieri di portarlo al suo passaggio. Alle 10,50 Gabriel mi chiede se c’è il tempo per una corsa al supermercato: la sua riunione di famiglia a Nizza sarà oceanica. Sua zia, che conosco dal 2010, ha altri 7 tra fratelli e sorelle, e quando si riuniscono sono la metà di mille: come fare a presentarsi a mani vuote? Io, che quando si tratta di viaggiare sono di una prevenzione che sfiora il patologico, sarei già pronta per partire, ma trattengo l’impazienza. Gabriel fa in fretta, alle 11,20 saliamo in auto sotto una pioggia già battente.

Tergicristalli a palla, tuoni assordanti e lampi che illuminano il cielo cupo, per parlare bisogna alzare la voce da tanto scroscia: la sopraelevata, che collega il mio quartiere all’autostrada, presenta al mio ospite una città avvolta in una nebbia che neanche Londra. Con mio inglese arrugginito provo a mostragli qualche scorcio: il porto antico, Palazzo Reale, l’acquario, laggiù la lanterna. Ma è tanto se si vede la strada, che a tratti è un fiume con enormi e pericolose pozze. Inevitabile finire a parlare delle alluvioni: persino un giovane maestro di Parigi sa che quando fanno due gocce a Genova sono guai. Accendo Isoradio per capire come va con il traffico, si sente poco e male. Imbocco il casello, prendo il biglietto, sono preoccupata, non è sicuro che ce la facciamo ad arrivare in tempo all’appuntamento con il suo passaggio. Accelero in galleria per superare i tanti camion prima di girare a fine tunnel verso destra, per prendere il ponte Morandi. Merda. L’auto davanti sta lampeggiando. Coda.

Dico a Gabriel, che dovrebbe essere agitato per la situazione e invece è serafico, che rischiamo di non arrivare in tempo. Un occhio all’orologio: sono le 11,40. Una sagoma umana sta correndo sotto il diluvio, muove le braccia, grida ma non si sente nulla. Un incidente sul ponte, penso. L’uomo, completamente zuppo, si china verso le portiere delle auto. Apro il finestrino e il ragazzo, che gronda acqua dice qualcosa che non ha senso. “E’ crollato il ponte, andate via”. Più tardi mi tornerà in mente il suo sguardo allucinato. Scopriremo dai giornali che una dottoressa è viva grazie alla prontezza di riflessi di questo giovane, che è sceso dalla macchina e le ha gridato di venire fuori, e correre.

Ora sono solo innervosita dal fatto che un po’ di pioggia a Genova sia sempre un disagio esagerato, e per la panzana del ponte che crolla sulla Valpolcevera. Riesco non so come sempre sotto la pioggia battente a spostarmi a sinistra e prendere la deviazione, ci vuole una vita ad arrivare allo svincolo di Genova est, che pure è vicinissimo. Gabriel ha disdetto il suo passaggio, lo porto a prendere il costoso treno a Piazza Principe, la radio gracchia musica sul canale di pubblica utilità: come è possibile non dicano niente? Alle 12,15 la conduttrice parla, molto guardinga, di una voragine che si sarebbe aperta sulla strada, non ci sono notizie certe. Ma c’è qualcosa che non va. Prima una, poi a decine le ambulanze. Il traffico è in tilt, poco prima delle 13 anche la radio pronuncia quella parola: crollo. Torna alla mente l’uomo che correva sotto il diluvio. La consapevolezza arriva come una mazzata. Ero lì: se non fosse stato per Gabriel e la sua spesa tardiva avremmo transitato sul ponte proprio mentre veniva giù. Da quando sono tornata a casa, sotto il muro d’acqua, non mi sono staccata dalle notizie fino alle 4 del mattino.

Ogni persona affronta il trauma a modo suo: io ho trovato giovamento nel pulire casa con mio figlio più piccolo, per tutto ferragosto, svuotando armadi, cassetti, mobili. Mettere ordine nello spazio esterno per provare a dare un senso allo sconvolgimento che hai dentro. Il ciclo del sonno è sottosopra, la paura più grande è quella chiudere gli occhi e rivedere l’uomo che corre, essere consapevole che la morte ti ha sfiorato vicinissima, non è un film che racconta le storie incrociate di persone sconosciute unite da una circostanza. Questa è la realtà.
Avevo otto anni quando il gigantesco viadotto fu inaugurato.

Non mi ricordo nulla di quell’evento, mia madre invece sì: la sua generazione lo chiamava “il ponte di Brooklyn” perché, con un po’ di fantasia, ne ricordava le fattezze. Mi sono obbligata a rimettermi alla guida, alla sera del 15 agosto, per paura di non riuscire a farlo più. Non ho girato la testa di lato, percorrendo l’unica strada possibile per viaggiare da levante a ponente, a guardare quello che resta del ponte: con la coda dell’occhio, nella zona di Campi, ho visto le folle assiepate con i cellulari in aria, il turismo locale dell’orrore. Di tutte le riflessioni che si sono susseguite ce n’è una che mi ha colpita in particolare.

Laura Varlese, blogger che ho conosciuto nel 2011, scrive così sulla sua pagina Facebook: “Un ponte unisce due estremi, cuce due lembi, perciò un ponte che crolla è uno strappo in un tessuto che siamo abituati a vedere tutto intero. Lo squarcio si apre sull’abisso: il crollo fa precipitare per metri, il vuoto risucchia, nessuno torna indietro da questo volo. Cadere nel precipizio è una paura atavica, ce l’abbiamo tutti. Un ponte è sempre frutto del sogno visionario di qualcuno. Qualcuno che ha sfidato le leggi della fisica e che ha deciso di superare un limite costruendo qualcosa di unico. Quando il progetto fallisce, nasce il sentimento della disfatta, la sensazione di non aver saputo fare, la paura di dover tornare indietro al tempo in cui nessuno creava ponti e tutti restavano fermi lì dove li piazzava la loro sorte. Attraversare un ponte significa fidarsi di chi l’ha costruito e del soggetto pubblico che se ne occupa”. Fiducia.

Anche nella calda estate del 2001 si era rotta, a Genova, la fiducia, verso le istituzioni, la polizia. Ma si trattava di una vicenda in cui alcune ragioni e visioni si opponevano ad altre. Questa volta è diverso. Il crollo del ponte Morandi, il tributo di sangue che ha generato, apre una ferita immensa nella fiducia che ogni giorno necessitiamo per vivere insieme. Che niente sarà come prima non è una frase vagamente enfatica: è ciò che sta accadendo, dalle 11,36 del 14 agosto. Ci sono le vite, le storie, i sogni e i progetti perduti senza senso in quel maledetto volo, ci si chiede se potremo mai di nuovo imboccare spensieratamente un viadotto senza che si sbricioli come farina.