Società

Una storia di ordinario razzismo

Una bella città italiana con una gelateria in piazza. Quattro panchine vuote di fronte all’entrata riportano la scritta: “le panchine possono essere utilizzate dai consumatori della gelateria”.Una persona di colore, assolutamente adeguata nel comportamento, è seduta senza consumare. Non noto la sua presenza e mi siedo vicino per godermi il mio gelato.

Dopo qualche minuto esce uno dei dipendenti della gelateria e chiede in italiano, con tono tranquillo ma evidentemente provocatorio, alla persona di colore se stia consumando. Nessuna risposta se non gesti che non capisce l’italiano, esce un’altra dipendente e fa la stessa richiesta in inglese. Alle sollecitazioni dei gelatai la persona di colore comunica chiaramente di non volersi alzare. I toni dei dipendenti della gelateria divengono più concitati e alla fine chiamano la polizia. Nel giro di un attimo, tutto degenera, la persona di colore – contrariata per l’atteggiamento di ostilità ma non volendo evidentemente grane con le forze dell’ordine – si alza senza rinunciare a una controffensiva con il gesto del dito medio verso il gelataio. Quest’ultimo reagisce in maniera enfatica e spropositata correndo verso l’uomo, come per volerlo aggredire, accompagnando i gesti con parole offensive e violente. Viene trattenuto dagli astanti che ripetono : “Non cadere nelle provocazioni, non ti compromettere, non ti rendi conto che è una trappola? ” Nel trambusto la persona di colore scompare.

Guardo la scena senza riuscire di fatto a intervenire. All’inizio non riesco neanche a capire bene da che parte sto. Mi vengono in mente vari pensieri. Sto dalla parte del gelataio: “La persona di colore sta contravvenendo alla regola del rispetto di una proprietà privata (la concessione delle panchine)”, ma mi rendo conto dei limiti della mia educazione perbenista. Sto dalla parte dell’uomo di colore: “Non sto facendo niente di male, le panchine sono vuote, il mio comportamento è adeguato, chissà se hanno davvero la licenza per l’utilizzo privato di un suolo pubblico, dove tra l’altro manca qualsiasi altra panchina”. Ancora dalla parte del gelataio: “Non è tanto che stia seduto ma piuttosto che ostinatamente non riconosce la mia autorità su quella che in fondo è una mia proprietà”. Ancora dalla parte dell’uomo di colore: “È una discriminazione bella e buona, se ci fosse stata un’altra persona al mio posto il gelataio non si sarebbe sognato di accampare questo misero diritto”.

Improvvisamente provo una sofferenza profonda: capisco di avere assistito a una scena paradigmatica di razzismo e di non aver avuto la presenza di spirito di fare qualcosa. Mi sento un codardo, un vigliacco, mi sento in colpa. Mi interrogo su me stesso e sulla mia incapacità di portare avanti i miei principi, sul campo e non in via del tutto teorica. Penso al fascismo e al nazismo, alle persecuzioni, alla passività degli ebrei, a mia madre che si rammaricava con mio padre perché si era fatto fare dei documenti falsi per vivere sotto falso nome. Come è capitato in molte famiglie ebree, i miei hanno raccontato molto poco di quel periodo, come se la fine della guerra sollecitasse a evitare i ricordi, un tentativo di non affrontare memorie traumatiche. Ho sempre pensato che le guerre fossero altrove, le leggevo sui giornali o le vedevo in televisione. Potevo anche manifestare per una guerra come quella del Vietnam, ma in fondo era lontana. Tutto era nel nome del principio. Ma l’episodio della gelateria, nel suo piccolo, mi ha fatto vivere un episodio di “banale guerra” a casa nostra e l’impreparazione a saperla combattere in maniera civile.