Politica

Amministrative 2018, per il Pd il disastro è una buona notizia

Nella sconfitta alle elezioni amministrative di Massa, Pisa, Siena e Imola c’è almeno una buona notizia per il Pd: è finita l’ambiguità. Impossibile essere un partito a vocazione maggioritaria quando continui a perdere: il Pd è minoranza, è un’opposizione che lotta per non sparire. Che si deve reinventare.

Un disastro? Per molti aspetti sì, per i dirigenti ma anche per quei molti italiani che osservano i risultati dei tanti errori del Partito democratico di questi anni: prima hanno generato i Cinque Stelle, poi hanno aperto le praterie all’avanzata di Matteo Salvini e della sua Lega che sfidano apertamente non solo gli avversari politici ma anche le istituzioni, italiane ed europee, e anche i valori che a quelle istituzioni danno fondamento.

Ora il Pd è fuori dalla palude. E’ nella invidiabile condizione di chi non ha nulla da perdere. Può finalmente liberarsi di Paolo Gentiloni con tutto quello che rappresenta, cioè “la mummificazione dell’establishment”, come lo ha descritto in privato un alto dirigente del Pd. Gentiloni ha rappresentato in questi due anni l’ultima illusione che ci fosse uno status quo da preservare. Una forza d’inerzia capace di resistere a quella del cambiamento. Quella fase è finita.

Adesso il Pd ha davanti poche opzioni.

La prima: modello Gentiloni. Il Pd può  insistere con la scelta di essere il partito dell’establishment, puntare ad assorbire Forza Italia, costruire un grande fronte repubblicano come ultimo argine ai populisti, magari guidato da Gentiloni come campione di Schengen, della morigeratezza di bilancio, della generazione Erasmus e di quella politica che si fa in cravatta e sottovoce, senza parolacce. E’una scelta che può anche diventare inevitabile se Salvini continuerà la sua evoluzione in un Viktor Orbàn italiano e metterà in discussione la democrazia liberale e le sue garanzie, esito sempre meno fantascientifico. Il principale rischio di questa linea è di scoprire, troppo tardi, di essere minoranza. E quindi di rendere inevitabile un esito – l’istituzionalizzazione del populismo – che oggi è solo probabile.

Seconda opzione: modello Corbyn. Andare a riprendere uno per uno gli elettori persi tra i Cinque Stelle con una politica di testimonianza pura e di sinistra, senza nessuna ambizione di vincere nell’immediato. Con un’agenda davvero socialdemocratica fatta di welfare, redistribuzione, equità, spesa pubblica e tasse. Per riuscirci serve una nuova leadership che sappia dare freschezza a vecchie ricette. Non può essere Bersani il Corbyn italiano, ma neppure un Fratoianni qualsiasi (inteso come simbolo di tutte le seconde linee promosse per ritiro del leader, nel suo caso Nichi Vendola). Magari un Maurizio Landini o una Susanna Camusso dopo la fine dell’esperienza alla guida della Cgil. Il rischio è di scoprire che, come dimostra l’esperienza di LeU, per una forza di questo tipo non c’è spazio.  

Terza opzione: modello Robin. Il Pd può decidere di costruire un nuovo centrosinistra che includa i Cinque Stelle. Questo chiaramente significa essere il junior partner (altrimenti detto stampella). E’ vero che, come canta Cesare Cremonini, “nessuno vuole essere Robin”. Ma quando non puoi ambire al ruolo di  Batman, meglio essere Robin che niente. Anche per questa opzione serve un nuovo gruppo dirigente e la scelta di abbandonare i progetti di sfondamento al centro. C’è poi l’incertezza se tutto questo vada bene ai Cinque Stelle (Alessandro Di Battista ha detto più volte che tra Pd e Lega, è meglio la Lega perché è meno legata alle lobby). A cementare questa alleanza servirebbe poi un nome non contestabile, come era quello di Stefano Rodotà, candidato dal M5S nel 2013 e apprezzato da vasti pezzi del mondo Pd. Magari un Roberto Saviano, un Raffaele Cantone, o – meglio ancora – Gianni Cuperlo, l’unico che ha mantenuto una sofferta dignità in questi anni di macerie.

Quarta opzione: modello Macron. Se il Pd sceglie di completare il percorso seguito in questi anni, non gli resta che liberarsi del tutto delle ultime tracce dell’identità post-comunista, dei rapporti con la Cgil e con i suoi tradizionali mondi di riferimento. Può decidere di occupare quello spazio al centro lasciato libero da Forza Italia e dal centrodestra non sovranista e proporre politiche radicali per smuovere la crescita. Ma molto radicali, tipo abolire Tar e Corte dei Conti, zone con fiscalità a livelli irlandesi per spingere gli investimenti al Sud, liberalizzazioni drastiche di professioni e settori protetti (dalle autostrade ai trasporti all’avvocatura) e proporsi come alternativa alla sostanziale promessa reazionaria del sovranismo. Anche per fare questo ci vogliono nuovi leader, un nuovo nome e una nuova forma partito, oltre a un coinvolgimento di tutti quei pezzi di potenziale establishment tenuti ai margini dalle cariatidi che presidiano gli attuali assetti di potere.

Sono quattro strade molto diverse tra loro. Grazie al disastro delle Amministrative, il Pd è finalmente libero di scegliere.