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Trump esulta, ma è Kim ad averla spuntata. E l’Iran potrebbe approfittarne

di Roberto Iannuzzi*

Il vertice di Singapore fra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un ha segnato un nuovo passo estremamente contraddittorio dell’attuale presidenza statunitense. Con esso Trump ha dimostrato di seguire politiche diametralmente opposte con due avversari di Washington, la Corea del Nord e l’Iran, accomunati da un contenzioso nucleare che contrappone entrambi alla superpotenza americana.

Il vertice ha sancito un’inedita apertura negoziale fra l’America e la Corea del Nord, che va certamente accolta con sollievo, ma che presenta contorni ambigui e fumosi. Per converso, il cosiddetto Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) ratificato con l’Iran nel 2015 era stato il frutto di un negoziato rigoroso fin dal principio, che aveva imposto notevoli restrizioni e uno stretto regime di monitoraggio al programma nucleare iraniano. Malgrado ciò, Trump ha deciso di abbandonare unilateralmente questo accordo il mese scorso.

Per comprendere più a fondo le implicazioni di una simile contraddizione è utile esaminare meglio ciò che è accaduto a Singapore.

L’incontro fra Trump e Kim Jong-un, dopo essere stato a lungo in forse, ha allontanato il rischio di un conflitto potenzialmente nucleare, e questo è certamente un fatto positivo. Esso è stato salutato con gioia soprattutto dai sudcoreani, la cui capitale Seoul rimane sotto la costante minaccia dell’artiglieria di Pyongyang.

Il riavvicinamento fra i due leader è stato però accompagnato dalla firma di una dichiarazione congiunta dai toni molto vaghi, nella quale la Corea del Nord si impegna a perseguire l’obiettivo di una “completa denuclearizzazione della penisola coreana” in cambio di non meglio precisate “garanzie di sicurezza” da parte americana.

Dietro la generica espressione “completa denuclearizzazione della penisola coreana” che compare nel testo si celano due visioni fino ad oggi agli antipodi. La visione americana intende a questo proposito il completo (e unilaterale) smantellamento dell’arsenale nucleare nordcoreano. L’interpretazione nordcoreana prevede invece una graduale reciprocità, in base alla quale al progressivo disarmo nucleare di Pyongyang farebbe da contraltare la smobilitazione delle truppe statunitensi dalla penisola, la ratifica di un trattato di pace e altre misure.

Vi è dunque la concreta possibilità che a Singapore Trump e Kim Jong-un si siano “accordati” su un testo le cui rispettive interpretazioni sono inconciliabili.

Malgrado le roboanti dichiarazioni di Trump, è Kim a essere uscito vittorioso dall’incontro. Innanzitutto è stato lui, avendo testato con successo missili intercontinentali in grado di raggiungere il suolo statunitense, ad aver costretto al tavolo negoziale gli americani. Il leader nordcoreano ha ottenuto un incontro da pari a pari con il presidente della prima superpotenza mondiale, cosa che gli ha assicurato quella legittimazione internazionale che cercava da tempo.

Per converso, le pressioni politiche ed economiche di Washington non hanno strappato a Pyongyang nessuna reale concessione fino a questo momento.

La posizione negoziale americana appare del resto indebolita proprio dalla scelta di Trump di abbandonare unilateralmente il Jcpoa, malgrado il pieno rispetto dell’accordo da parte dell’Iran. Alla luce dell’inaffidabilità statunitense, prima di rinunciare al proprio arsenale nucleare Kim chiederà a Washington misure di reciprocità e chiare garanzie di sicurezza.

Ma è proprio sulla questione della reciprocità, e in particolare di una possibile smobilitazione militare americana dalla penisola coreana, che l’establishment politico di Washington si è dimostrato finora poco disponibile. Lo conferma l’incredulità con cui il Pentagono e numerosi esponenti politici statunitensi hanno accolto la decisione di Trump, annunciata dopo la firma della dichiarazione congiunta con il leader nordcoreano, di sospendere le esercitazioni militari che le forze americane tengono abitualmente con l’esercito di Seoul.

Il neonato negoziato con Pyongyang è però destinato ad avere vita breve se Washington non si rassegnerà a compiere scelte difficili. In alternativa gli Stati Uniti dovranno imparare a convivere con una potenza nucleare nella penisola coreana, o torneranno sull’orlo di un conflitto dagli esiti potenzialmente disastrosi.

Al tempo stesso, negoziando con Kim Jong-un dopo aver violato l’accordo con l’Iran, Trump ha inviato al mondo un messaggio di debolezza oltre che di inaffidabilità. Egli ha sostanzialmente fatto capire a tutti gli avversari dell’America che chi si dota di un arsenale nucleare può trattare da pari a pari con gli Stati Uniti. Chi invece, come l’Iran, preferisce rinunciarvi giungendo a un accordo con Washington, corre sempre il rischio di essere tradito.

Per il momento Teheran ha deciso di continuare a rispettare il Jcpoa. Ma se gli altri paesi firmatari, in assenza degli Stati Uniti, non saranno in grado di garantire all’Iran i benefici economici previsti dall’accordo, Teheran potrebbe essere tentata di seguire la via nordcoreana, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe in termini di proliferazione nucleare e destabilizzazione dell’area mediorientale.

Autore del libro Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo (2017)