Diritti

Roma pride, marceremo perché due gay che si tengono per mano non subiscano più omofobia

«Quando ho vinto il concorso di preside gay»… è questa una delle battute ricorrenti di Vanni Piccolo. Ogni volta che la dice, non puoi fare a meno di sorridere. Interiormente, prima di ogni altra cosa. Perché non c’è solo un’irriverenza che ha radici lontane. Non ci trovi, infatti, solo l’orgoglio che ha portato i gay della sua generazione a liberarsi dalle maglie del pregiudizio in una società che non concedeva alcuno spazio, pubblico e privato, alle persone Lgbt. C’è anche una profonda pacatezza: quella di chi, dopo aver attraversato la storia, ne conosce i contorni e in un certo qual modo ne domina le dinamiche.

È quello che è successo ieri, d’altronde, al galà per i trentacinque anni del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Al teatro Quirinetta di Roma, si sono riuniti i personaggi più noti della gay community italiana, di ieri e di oggi: da Franco Grillini, storico leader di Arcigay, a Marilena Grassadonia, presidente di Famiglie Arcobaleno. Passando per le tre donne che hanno reso grandi i pride romani: come Deborah Di Cave che nel 1994 ha portato la manifestazione in città, Imma Battaglia che ha vinto (nomen omen) la sfida del World Pride del 2000, fino a Rossana Praitano, che nel 2011 ha riempito la più grande piazza di Roma, il Circo Massimo, con l’Europride.

Lì, su quel palco, Vanni – che è stato anche presidente del Circolo, dal 1984 al 1990 – è stato chiamato a leggere una lettera a un ipotetico giovane che sta per affacciarsi al mondo arcobaleno e all’associazionismo. E lì, il preside gay ormai in pensione ha cominciato a mettere in fila i suoi ricordi da quando, poco più che quarantenne, ha cominciato a militare per costruire quell’associazione che, nella capitale, avrebbe poi fatto la differenza. Ricordando gli amici che non ci sono più, per una delle prime sfide che il Mieli è stato chiamato ad affrontare da subito: quella dell’Hiv.

E gli si rompe la voce, fino a quel momento ferma e serena, quando ricorda che il mondo intero raccontò l’Aids come morbo gay. Ricorda ancora – mentre la sala viene percorsa da un unico brivido, come quando una sferzata di vento scuote le bandiere rainbow – come molte di quelle persone morivano ad una ad una, quasi senza un perché, mentre certi genitori ripudiavano due volte i loro figli: non solo come omosessuali, ma anche come “appestati”. E per questa ragione, dice ancora, e la sua voce torna ad essere ferma, non possiamo permettere a nessuno di discriminare le persone sieropositive. Dietro quella sigla, di quattro lettere, ci sono vite intere. Qualcosa di infinitamente più grande.

Tutto questo ricorda, ai giovani omosessuali, e ci fa capire l’importanza della nostra comunità nella lotta contro la malattia: «Ci sentimmo trattati da cavie» continua ancora, quando racconta che i medici chiesero ai gay di testare i primi farmaci «ma capimmo che avevamo il dovere di contribuire a debellarla». E dopo tutto quel tempo, afferma con orgoglio – sì, ancora quella parola – oggi le associazioni Lgbt collaborano pienamente con gli ospedali e i centri di ricerca, per le politiche di salute e di prevenzione.

E mentre rammenta tutto questo, comprendi – e gli occhi diventano caldi e non puoi evitarlo – che dietro la testimonianza di Vanni Piccolo c’è qualcosa di più grande e poderoso della grandiosità del ricordo: c’è la promessa del futuro che ci attende, tutti e tutte in modo indistinto. Rispetto ai tempi che si preannunciano, alle parole ingrate di una classe dirigente nuova e impreparata non tanto a maneggiare le leve del potere, quanto a gestire le grammatiche della democrazia, in quelle parole c’è la consapevolezza che noi ci saremo sempre.

«Caro giovane, mi spiace dirti che siamo in un mondo in cui se vuoi fare l’amore per la prima volta, dovrai usare il preservativo», conclude la sua lettera bella e struggente, delicata e poderosa, come la natura del diamante. E gli ricorda, a quel giovane, che ha il dovere di tutelare la sua salute e la sua dignità di persona. «Caro giovane, mi spiace dirti che se vorrai camminare mano nella mano con il ragazzo che ami, il mondo là fuori è ancora omofobo» dice ancora. Ed è per questa ragione che oggi, al Roma Pride – ma anche altrove, dalle Dolomiti a Pavia – si torna a marciare.

Si torna a marciare non solo per rievocare la nostra storia e per celebrare ciò che siamo stati. Si torna a marciare per quella promessa di futuro che è sempre lì, accanto a noi. La riconosci nelle parole di chi un pezzo di storia l’ha fatta. Te la ritrovi – quasi senza chiederla, forse – tra le mani, ma questo ci rende ancor più responsabili. Perché ci siamo, a dispetto di chi ci vorrebbe inesistenti.

Grazie Vanni, se siamo qui oggi è anche per merito tuo.
E buon pride, a tutti e a tutte.