Economia

Argentina, così Buenos Aires si è avvitata sul dollaro. E ora mette alla prova i pentimenti del Fondo monetario

I primi errori li ha fatti la Banca centrale del Paese sudamericano che, incalzata dal governo, ha acconsentito ad allentare i cordoni della borsa. La crisi che vive oggi Buenos Aires ripropone con prepotenza il tema dei rischi di destabilizzazione che comporta la libera circolazione dei capitali a livello globale

In un mondo dove basta un “click” per spostare all’istante miliardi di dollari, gli errori, anche piccoli, si pagano caro e subito. A maggior ragione se non c’è una delle grandi banche centrali a fare da scudo. Negli ultimi mesi l’Argentina ha commesso alcuni sbagli e lo ha fatto nel momento peggiore. Così la situazione è precipitata in un batter d’occhio costringendo il Paese a chiedere nuovamente soccorso al Fondo monetario internazionale. Venerdì 18 maggio l’Fmi si riunisce per valutare la richiesta di Buenos Aires e definire le condizioni del finanziamento.

I primi errori li ha commessi la Banca centrale del Paese sudamericano che, incalzata dal governo, ha acconsentito ad allentare i cordoni della borsa. Prima, a fine 2017 ha rivisto al rialzo il target dell’inflazione portandolo dal 12 al 15%. Una mossa che ha fatto storcere il naso agli investitori sempre molto cauti su questo fronte, poiché il Paese storicamente ha sempre avuto grossi problemi nell’arginare la corsa dei prezzi. Tant’è vero che in poco tempo l’inflazione ha raggiunto il 25% e secondo stime ufficiose viaggia ora intorno al 30 per cento. Indifferente al surriscaldamento dei prezzi, la stessa Banca centrale ha poi deciso in gennaio di ridurre i tassi di interesse dell’1,5%. Pochi giorni fa infine è stata introdotta una tassa del 5% sulle rendite finanziarie dei non residenti che ha provocato turbolenze sui mercati.

Il tempismo in queste cose è quasi tutto. Le decisioni argentine sono arrivate proprio mentre il dollaro iniziava una corsa al rialzo che sta mettendo in difficoltà le valute di tutti i Paesi emergenti. Lira turca e peso argentino sono le monete che stanno soffrendo di più perché fattori locali amplificano il trend generale. Il peso argentino è precipitato in pochi giorni di oltre il 10% con una perdita di valore sul dollaro che da inizio anno sfiora il 23%. Quando gli asset in dollari si rivalutano attraggono infatti verso di loro soldi prima investiti in prodotti e/o Paesi più rischiosi. Il problema è che Buenos Aires ha sul mercato bond per 100 miliardi di dollari. Sono titoli il cui rimborso e il cui pagamento degli interessi deve avvenire con la moneta statunitense. Quindi se il biglietto verde si rafforza, il peso del debito sul Paese aumenta. A maggior ragione se questo avviene in una stagione in cui i raccolti agricoli, di gran lunga la principale risorsa economica del Paese, sono ridotti dalla siccità. Le esportazioni di grano o soia sono inferiori alle previsioni e questo riduce l’afflusso di valuta estera nelle casse del Paese.

A questa situazione di emergenza Buenos Aires ha reagito con due mosse shock. Nel giro di una settimana ha alzato i tassi di interesse dal 27 fino al 40% e ha chiesto una linea di credito da 30 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale e c’è stato un colloquio telefonico tra Casa Rosada e Casa Bianca in cui Donald Trump avrebbe assicurato sostegno al Paese sudamericano. Lunedì e martedì scorsi la Banca centrale si è mossa nuovamente utilizzando circa 1,2 miliardi delle sue riserve in dollari per sostenere il cambio del peso. Dopo qualche incertezza le contromisure adottate sembrano avere per ora calmato le acque. Mercoledì l’Argentina è riuscita senza problemi a rimborsare e rifinanziare titoli in scadenza per 25 miliardi di dollari e il peso ha interrotto la sua caduta.

La richiesta di aiuto all’Fmi evoca tristi precedenti per il Paese e rimanda subito il pensiero al 2001. È bene precisare che la situazione economica complessiva del Paese rende tutavia improprio questo paragone. Nel 2017 il Pil argentino è cresciuto del 2,9%, il debito pubblico che all’epoca sfiorava il 170% del Pil si ferma oggi sotto al 60% e l’atteggiamento dei mercati verso la presidenza di Mauricio Macri rimane sostanzialmente favorevole. I punti di criticità riguardano le riserve di valuta estera che equivalgono il 7,6% del Pil, il livello più basso tra le economie emergenti a fronte di un disavanzo con l’estero che supera il 5% del Pil. È comunque lecito attendersi un approccio meno “muscolare” da parte dell’Fmi guidato da Christine Lagarde dopo che negli ultimi anni non sono mancate autocritiche del Fondo sugli approcci adottati in passato nei confronti di Paesi come la Grecia e la stessa Argentina.

Venerdì si saprà probabilmente qualcosa di più sulle condizioni a cui dovrebbe essere erogato il finanziamento. Se i termini non saranno eccessivamente punitivi la scelta di Buenos Aires potrebbe anche rivelarsi azzeccata. Su questo il presidente Macri, in carica da fine 2015, si gioca buona parte della sua rielezione nel 2019. Quello tra Argentina ed Fmi è un rapporto conflittuale di odio e amore che dura da decenni. Nella prima metà degli anni ’90 il paese era considerato “l’allievo” modello del Fondo. Le politiche suggerite da Washington, liberalizzazioni, riforme, spesa pubblica sotto controllo avevano infatti innescato un circolo economico virtuoso. Il peso era stato agganciato al dollaro, con un rapporto di cambio stabile 1 a 1 che aveva abbattuto l’inflazione prima galoppante e dato stabilità finanziaria al Paese. La parità con il dollaro decisa a tavolino diventa però una trappola quando milioni di argentini iniziano a contrarre debiti in dollari pur avendo redditi in pesos. Una scelta che mostrerà tutti i suoi limiti e pericoli quando il paese sarà costretto ad abbandonare la parità con il dollaro. L’incantesimo si rompe alla fine degli anni 90 quando la crisi economica del vicino Brasile e le turbolenze della finanza internazionale rendono impossibile per Buenos Aires difendere il valore della sua moneta. Gli interventi di emergenza dell’Fmi non serviranno a raddrizzare la barra di un Paese finanziariamente alla deriva e ad evitare il default di fine 2001.

La crisi che vive oggi l’Argentina ripropone con prepotenza il tema dei rischi di destabilizzazione che comporta la libera circolazione dei capitali a livello globale. Una condizione sulla cui bontà anche le convinzioni degli economisti iniziano ad essere un po’ meno granitiche rispetto a qualche anno fa. I cosiddetti “hot money”, enormi flussi di denaro in cerca di rendimenti che si spostano da un angolo all’altro del globo, arrivano in un lampo e altrettanto rapidamente se ne vanno. A volte anche senza che il Paese abbia particolari problemi di fondamentali economici come ha evidenziato la crisi delle “tigri asiatiche” del 1997. Quello che si può rimproverare all’Argentina è di essere troppo sensibile al richiamo di questi “soldi facili”.