Lavoro & Precari

Foodora, quella di Torino è una sentenza ingiusta. Soprattutto perché in Italia

Quando li vedo passare di notte, silenziosi e veloci con le loro bici dotate di bauletto fluorescente firmato dalla rispettiva azienda, provo sempre una piccola stretta al cuore. Mio figlio, dalla macchina, mi chiede chi siano e io glielo spiego. Ma stranamente è come se anche lui fosse a disagio. Perché questi “dipendenti” invisibili delle aziende dell’economia digitale che consegnano cibo a casa, da Foodora a Deliveroo (solo per citare i più noti), sono in parte diversi dal vecchio fattorino che ti portava la pizza. Il fattorino lo associavi al lavoretto una tantum, fatto per guadagnare qualcosa, magari in attesa di una laurea; loro, invece, a lavoratori che forse oltre quell’occupazione non troveranno nulla.

Che resteranno intrappolati in una precarietà che non ha fine, perché le nuove aziende della cosiddetta “gig economy“, ancor più di aziende di altro tipo (che pure ormai il lavoro precario lo usano comunque a profusione e spesso illegalmente), si fondano sul lavoro intermittente, a chiamata, parcellizzato. Un lavoro in cui salta persino qualsiasi contatto umano col datore di lavoro perché tutto si svolge tramite una App. Tanto che, forse, gli stessi rider saranno presto direttamente sostituiti da droni.

Sembra dare ragione proprio a queste aziende il tribunale del lavoro di Torino, che ha respinto il ricorso di sei rider Foodora che chiedevano un risarcimento per l’interruzione improvvisa della loro attività, dopo le proteste del 2016. Secondo i giudici, il rapporto di lavoro non era subordinato, dunque poteva essere interrotto in qualsiasi momento. Secondo l’azienda, poi, questi fattorini rinunciavano ai turni “senza scusarsi”, mentre gli avvocati dei lavoratori parlano di un controllo costante e ossessivo di Foodora sui fattorini e di sfruttamento degli stessi.

Una sentenza giusta o sbagliata? In realtà, prima di dare un giudizio, bisognerebbe mettere a confronto questa decisione con altre di senso opposto. In Spagna, ad esempio, l’Ispettorato del Lavoro di Valencia ha detto che fare il rider Deliveroo non è un hobby ma un lavoro dipendente. In Francia, ai tassisti Uber il Tribunale di Parigi non ha riconosciuto lo status di dipendenti, in Inghilterra è successo esattamente il contrario.Insomma, il problema della definizione del rapporto di lavoro varia da paese a paese a seconda del diritto del lavoro, mentre queste aziende dell’economia digitale sono trasversali, il che rende ancora più complicato definire con chiarezza il loro status.


Video di Simone Bauducco

 

Ma parliamo dell’Italia. Negli anni Novanta furono introdotti i co.co.co., proprio per definire figure di lavoratori ibride. Poi questi contratti furono utilizzati abusivamente per fare qualsiasi cosa, tanto che a un certo punto sono stati parzialmente aboliti. Cos’è successo dopo? Tutti i co.co.co sono diventati Partite Iva o lavoratori a chiamata o pagati con i voucher, anche se svolgevano funzioni che trent’anni prima avrebbe fatto un dipendente.

Le aziende hanno selvaggiamente esternalizzato qualunque cosa, scaricando tutti i costi sui lavoratori, i quali devono pagarsi tutto, dai contributi all’assicurazione medica, dalla formazione ai costi degli strumenti di lavoro. Qualunque lavoro che abbia un relativo margine di autorganizzazione viene tacciato di non essere dipendente, come se i dipendenti non possano godere di una relativa autonomia e flessibilità.  Ma si può davvero definire autonomo qualcuno che riceve ordini da un superiore e deve dare la sua disponibilità costante salvo malattie o emergenze?

O un contabile che lavora da casa con partita Iva? O un insegnante pagato da una scuola privata a ore? E così migliaia di altri casi, che finiscono in una zona grigia nella quale permane ormai la maggior giovani lavoratori che si affacciano al mercato di oggi, di cui i rider di Foodora sono simbolo. E il problema è che mentre il lavoratore Foodora francese o tedesco gode comunque di protezioni sociali, per i lavoratori autonomi l’Italia non prevede nulla, ferma com’è al prototipo novecentesco del dipendente pater familias. Si ammalano? Peggio per loro. Non hanno pensione? Peggio per loro. Disoccupazione? Non esiste. Da un lato, la cittadella sempre più stretta del lavoro dipendente, fuori i disperati della flessibilità, senza traccia di “security“, che nel nostro paese non c’è mai stata.

Torniamo all’Europa: anche qui, come in paesi dal lavoro storicamente tutelato, la precarietà avanza (penso ai mini-job tedeschi). Eppure la diversità sta in questo: i controlli sul falso lavoro autonomo sono maggiori – e molto più facilmente si viene assunti – ma soprattutto, come dicevo, sono maggiori le protezioni per i lavoratori autonomi. Se vogliamo mantenere ferma la distinzione dipendenti-autonomi occorre che ci sia un controllo ferrato sulle aziende che di fatto usano gli autonomi come dipendenti, ma al tempo stesso serve che lo stato costruisca un welfare per gli autonomi.

In Europa c’è un dibattito molto avanzato su questo tema, di protezione del lavoro indipendente si parla moltissimo. Proprio di recente, tra l’altro, la Corte di Giustizia europea ha stabilito che anche un lavoratore autonomo ha diritto alla disoccupazione. Una decisione storica senza echi in Italia. Dove ancora, come mostra il caso Foodora, esistono lavoratori senza alcun diritto né protezione sociale. Una violazione palese della Costituzione, secondo cui “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Infine: molti hanno scritto che la colpa è anche di noi consumatori che dovremmo smettere di pretendere servizi efficientissimi a costi bassissimi. Questo è vero, certamente dobbiamo diventare più consapevoli (anche riguardo alle notizie gratuite che nascono dal lavoro di tanti giornalisti, ndr). Ma è pur vero che spesso non sappiamo più neanche se chi abbiamo di fronte sia un lavoratore tutelato o meno (la commessa è assunta? E il barista? E una persona che risponde a un call center?). E comunque non siamo noi a fare le regole, ma chi ha il potere di legiferare, e che dunque ha la responsabilità di fare norme che incidono sull’esistenza viva di un lavoratore.

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