Sport

Ciclismo: benvenuti alla Paris-Roubaix, ‘l’inferno del nord’

di Gius Molly

Non c’è corsa al mondo che abbia sollevato più dispute tra detrattori e ammiratori della terribile Parigi-Roubaix, che quest’anno si tiene domenica 8 aprile. “Paris-Roubaix est une connerie” (più o meno “la Parigi-Roubaix è una stronzata”). Così Bernard Hinault dopo averla vinta nel 1981. Il campione bretone odiava quella corsa che trovava anacronistica e pericolosa, ma riteneva che soltanto vincendola avrebbe potuto entrare nell’Olimpo del ciclismo, per cui si presentò alla partenza, pagò il suo tributo all’infernale percorso con reiterate cadute ed entrò nel velodromo di Roubaix, dove c’era una folla in trepidante attesa, con cinque compagni che peggiori non avrebbero potuto essere (Moser, De Vlaeminck e De Meyer erano i vincitori delle sette edizioni precedenti). Il bretone scelse di fare una volata lunga e vinse, impedendo così a De Vlaeminck o Moser (con lui sul podio) di stabilire dei record stellari: il primo avrebbe vinto la sua quinta Roubaix, il secondo si sarebbe imposto per la quarta volta consecutiva.

La prima edizione del cosiddetto Enfer du Nord ebbe luogo nel lontano 1896. Per una settantina d’anni la partenza ha avuto luogo a Parigi. Dal ’77 si parte a Compiegne, circa 80 km a nord-est di Parigi, e si arriva a Roubaix, a un passo dal confine con le Fiandre, dopo 260 chilometri di polvere e pietre. E non a caso i fiamminghi sentono questa corsa come fosse loro, tanto da fare la voce grossa nell’albo d’oro, a partire dai De Vlaeminck e Boonen che vantano quattro successi.

All’inizio la Roubaix si correva su lastricato semplicemente perché la maggior parte delle strade avevano quel tipo di fondo. Dopo la seconda guerra mondiale, coi lavori di ammodernamento,  i tratti di pavé stavano scomparendo, tanto che l’organizzatore della corsa, Albert Bouvet, fondò l’associazione “Amis de Paris-Roubaix”, con lo scopo di mantenere viva la tradizione scovando nuovi tratti di pavé e custodendo gelosamente quelli già conosciuti. Tra i primi, nel 1968 fece il suo ingresso nella corsa il tratto della foresta di Aremberg, uno dei più terribili con i suoi 2400 metri di terreno sconnesso, ancora oggi uno dei momenti più spettacolari della corsa.

I tratti in pavé vengono numerati a partire dal più vicino al traguardo fino al primo che i corridori troveranno sulla loro strada (domenica sono 29 in tutto per un totale di 54,5 km). Inoltre vengono classificati, un po’ come gli alberghi, con un numero di stelle crescente a seconda della durezza del tratto. Occhio soprattutto al famigerato Carrefour de l’Arbre, il quart’ultimo, un cinque stelle di 2.100 metri spesso risultato decisivo.

Anche se ha sempre avuto grande sfortuna sulle pietre, il vincitore quest’anno è stato Peter Sagan. Gli altri atleti dati per favoriti per questa edizione erano il campione uscente Van Avermaet e Sepp Vanmarcke. Un discorso a parte merita la Quick-Step, un’autentica corazzata che ha fatto piazza pulita nelle classiche fiamminghe lasciando agli altri le briciole: Terpstra, recente vincitore del Fiandre, aveav già trionfato a Roubaix nel 2014, Stybar era arrivato secondo l’anno scorso, Lampaert ha appena vinto “Attraverso le Fiandre”, e Philippe Gilbert, che si è sacrificato per i compagni nelle gare precedenti. Ma gli aspiranti alla vittoria erano molti (Degenkolb, Stuyven, i nostri Moscon e Trentin, per fare dei nomi). Tra i direttori sportivi, avvicinati da Velonews, il più gettonato era invece Terpstra.

Tra i tanti aneddoti ce n’è uno emblematico del rapporto di amore-odio tra i corridori e la corsa. L’olandese Theo de Rooy nel 1985, dopo essersi trovato in buona posizione, cadde rovinosamente e finì la corsa a bordo dell’ammiraglia. Intervistato in seguito, disse più o meno: “Questa corsa è una cazzata, lavori tutto il tempo come un animale, non puoi nemmeno fermarti a pisciare e ti ritrovi tutto bagnato, pedali nel fango, cadi. È veramente una merda”.  “Ma la correresti di nuovo?” “Certamente, perché è la gara più bella del mondo”.

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