Cinema

Il Filo Nascosto, un film così poteva realizzarlo solo Paul Thomas Anderson

“Capolavoro”: uno dei termini più abusati e impropriamente utilizzati nel linguaggio cinematografico corrente. Eppure, con Il Filo Nascosto, Paul Thomas Anderson riporta sullo schermo quell’aura di grandezza sconfinata impossibile da descrivere con altre parole proprio perché appartiene solo ai capolavori. Siamo al cospetto non solo di un sommo regista contemporaneo, ma probabilmente del più grande autore del nuovo millennio. Erede di un cinema che non c’è più e che affonda le proprie radici nella maestosa classicità di Orson Welles, John Huston e Stanley Kubrick, per attraversare Martin Scorsese, Jonathan Demme ed Robert Altman; è il poeta delle ossessioni che cambiano e si rincorrono, che ritornano all’interno di figure chiave ben precise, dapprima elaborate sotto forma di coralità ad immagine di un concetto più ampio di America, per poi diventare fulcro di questioni duali e demoni personali.

Romanticismo, brama, veemenza, malinconia: sono tante declinazioni diverse della lotta spasmodica tra amore e potere che da sempre anima il suo gesto filmico. Il Filo Nascosto prosegue questa ricerca cinematografica, ma celandosi stavolta dietro il misterioso fascino dell’eleganza. Nella Londra degli anni 50, Woodcock è un rinomato stilista; scapolo impenitente, abituato a una routine maniacale e sempre proteso alla ricerca ossessiva della perfezione assoluta nel proprio lavoro. L’incontro improvviso con una cameriera che diventerà sua musa ed amante, determinerà una metamorfosi interiore ed un’inarrestabile discesa nelle viscere di un rapporto d’amore folle e malato, in cui le ossessioni di due personalità distinte si fonderanno con una grazia sublime.

Anderson, oltre all’abituale sceneggiatura e regia, cura personalmente anche la fotografia ed in questo che potrebbe sembrare un delirio di onnipotenza, emerge in realtà tutta la sua straordinaria potenza. Veste il proprio film degli abiti classici e sfarzosi del melò, riuscendo a inserirvi le pieghe di un morboso thriller psicologico polanskiano. Servirebbero anni per studiare questo film e per provare a rintracciare i mille riferimenti incastonati al suo interno, ma per quanto si possa cercare di ricondurlo ad altri grandi nomi, la realtà è che un’opera di questo spessore, avrebbe potuto realizzarla soltanto Paul Thomas Anderson.

È miracoloso vedere con quale grado di consapevolezza spinga il formalismo verso vette di perfezione trascendentale. A impressionare, però, non è semplicemente il lato estetico, ma come questa esasperata ricerca stilistica sia sempre a totale servizio della profonda introspezione narrativa. Anderson ha il dono innato di saper riflettere le più piccole venature caratteriali dei suoi personaggi nelle immagini che mette in scena. Così la luce diventa espressione emotiva, l’illuminazione diffusa diegetica s’infrange morbidamente sui protagonisti per creare un’atmosfera eterea e gli accostamenti cromatici sono sintesi magnifica degli stati d’animo. La sontuosa concezione delle scenografie e dei costumi, insieme alla grana pastosa della pellicola, rende avvolgente la ricostruzione di un’epoca ed esprime la maniacalità di tutto ciò che circonda Woodcock.

C’è una tale armonia compositiva che si avrà l’impressione di essere immersi dentro un dipinto in cui ogni inquadratura è un autentico quadro animato e ogni più piccolo movimento di camera un sussulto dell’anima. Il Filo Nascosto avvolge e sconvolge, disegna costantemente nuovi equilibri in continuo divenire, scava e si spinge sempre un po’ oltre il limite, non lasciando mai una soluzione semplice allo spettatore. Un’estasi che arriva ad accarezzare sensi apparentemente sconosciuti al cinema come l’olfatto e il gusto; in questo senso è esemplare l’importanza narrativa che acquista il cibo nell’evoluzione di questo rapporto indecifrabile. È un legame dicotomico inafferrabile, gli sbalzi d’umore dell’uno riempiono i vuoti dell’altra, le debolezze si trasformano in punti di forza, ma questo avviene sempre con una delicatezza che lascia attoniti.

Woodcock e Alma sono due tossicodipendenti alla ricerca di quella droga che è l’amore; si inseguono e si sfiorano senza afferrarsi mai davvero, lottano in modo apparentemente sommesso mentre internamente ardono di contrasti. È una partita a scacchi con le emozioni, in cui ad ogni mossa corrisponde una reazione che sposta la percezione dei sentimenti provati fino quel momento. Accompagnamento ideale di queste personalità instabili, la sublime colonna sonora di un Jonny Greenwood perfetto nell’aderire, con le proprie note, ad ogni micro oscillazione emotiva. Non solo forma e sostanza, ma anche una sapienza registica sopraffina nel saper estrarre ogni volta dai propri attori interpretazioni sontuose.

Lesley Manville, apparentemente confinata ad un ruolo decentrato, è in realtà magistrale nel ricalibrare costantemente gli equilibri tra i protagonisti, mentre Vicky Krieps è una sorpresa assoluta nel ruolo della vita. Il modo in cui trasmette il fascino, il mistero, l’imbarazzo e la complessità del suo personaggio attraverso sottigliezze estreme, denota una sensibilità ed una capacità comunicativa davvero fuori dal comune. Daniel Day Lewis è semplicemente divino nel ridefinire ogni volta i limiti della recitazione. È indescrivibile la cura con la quale si immerge nel processo di creazione del personaggio, come riesca ad entrare nell’anima di Woodcock, come plasmi le sue movenze, quanti toni e registri arrivi a toccare senza che diventino mai “maniera“. Un artista che fa della sfumatura la sua più grande virtù e che sa come colorare anche le zone più buie del proprio personaggio. Il Filo Nascosto (al cinema dal 22 Febbraio), non è un film che vive solo nell’immediato, è qualcosa che lavora dentro, e che segna un nuovo limite per il cinema di tutti i tempi.