Scuola

Università e ‘laureifici’, non sarebbe più dignitoso andare a lavorare?

Diciamolo subito: queste righe saranno inutili. Un’ampia parte degli universitari e delle loro famiglie, che più di tutti dovrebbero intenderle, non lo farà. La classe dirigente di domani non legge e non sa. A parte ciò che deve leggere e sapere, certo. I libri, i tomi, gli appunti, le dispense, le fotocopie delle fotocopie, i manuali e i pizzini ma mai, mai, un occhio ai giornali. Non c’è tempo né educazione alla curiosità, così un laureato su quattro non legge secondo il rapporto 2017 dell’Associazione italiana editori.

Nella corsa verso il master che rallenta il traguardo dell’indipendenza adulta, l’università è ridotta a colossale distributore di titoli: inserisci il denaro, ritira la pergamena. Con una bella cornice in salotto è l’orgoglio di mamma e papà: l’hanno sudata anche loro. Atenei “laureifici”. “Manca il collegamento tra Università e Lavoro”. Non è vero: manca il collegamento tra Università e pianeta Terra. In aula e nei corridoi non si dibatte, non si studia, non si legge, non si insegna l’attualità in cui si è immersi. Solo corsi lampo, sessioni a raffica, test a crocette sempre uguali: più che centri di cultura, gli atenei sono centri di calcolo con i ricercatori preoccupati dal contare le speranze di rinnovo, gli studenti i cfu, le famiglie i voti. È tutta una media ponderata per arrivare al jackpot: 110, meglio se con lode. A volte meritato, troppe altre gelido e raggelante. Un 110 ha incoronato d’alloro S., fresca di seconda laurea in economia e freschissima della scoperta che in Italia, tra poco, si voterà. No, non gliel’avevano detto. “Da quando non c’è più Berlusconi non seguo molto la politica”. Qualcuno la avvisi che Berlusconi c’è, di nuovo. Altri 110 sono pretesi da L. e B., che rifiutano esami inferiori al 28: “Eugenio Scalfari? L’ho sentito, però ora non mi viene chi sia…”. Ora è durante un appello di giornalismo. La domanda “qual è il principale quotidiano del Gruppo L’Espresso?” è buco nero nelle loro carriere accademiche costellate di lodi. Carriere, sia chiaro, che germogliano in scuole senza radici di grammatica, geografia e di tutto ciò che non può essere ripetuto a pappardella.

Oggi come al liceo, migliaia di studenti conoscono a memoria il manuale ma ignorano cosa accade in Italia: come potranno mai affrontarla? Pazienza il dispiacere ma per loro sarebbe meglio una bocciatura. “Sarebbe”, perché ogni taglio all’istruzione e alla ricerca fa gli atenei schiavi due volte: delle tasse di chi studia, delle classifiche di merito che irrorano i finanziamenti. Così le università non si nutrono di cultura ma di rampolli da spingere avanti. Meglio se in corso e con valutazioni altisonanti. Nella scala dei voti, i gradini più alti si fanno pianerottoli.

Prima che di merito, di talento, di competenze, una laurea è questione di soldi e di pazienza: mese più, mese meno, ci arrivano tutti. Un titolo “obbligatorio” che nuoce al paziente del futuro medico, al cliente del prossimo ingegnere, ma soprattutto danneggia già oggi loro, i giovani. Fa male a chi ha imboccato l’università controvoglia e contromano, trainato da genitori-rimorchio e dal “ci vanno tutti”: perderà tempo, entusiasmo, orientamento.

Fa male a chi meriterebbe davvero di essere lodato per quella laurea con cui si immetterà nel traffico del lavoro. Ingolfato da curricula monovolume tutti uguali, farà molta più fatica a destreggiarsi di quanta ne faceva in aula: lì, alzando un braccio, poteva dimostrare chi era; qui, anche alzandone due e sbracciandosi, sarà solo un altro che tenta di non affogare.