Mafie

Omicidio Mattarella, quei pezzi mancanti e la verità che aspetta ancora giustizia

Più per la Storia che per la cronaca? Sul delitto di Piersanti Mattarella forse si riaprirà la Storia, eternamente, come in quasi tutti i grandi misteri italiani irrisolti. Ma si rischia di non avere mai più certe risposte di giustizia. Trentotto anni dopo i fatti: un presidente della Regione siciliana ucciso mentre usciva di casa, senza scorta (in quegli anni non si usava), per andare a messa. Accadde il 6 gennaio 1980.

A noi rimane l’immagine di suo fratello Sergio (oggi capo dello Stato) che lo abbraccia sanguinante, morto, sulla fiat 125 blu trivellata di colpi. E il ricordo di un cattolico democratico che voleva spezzare, a partire dal suo partito cioè la Dc, la storia di collusioni mafia-politica.

Diciamo subito che il fascicolo processuale Mattarella è pieno di carte e capitoli senza giustizia. E ora che la Procura di Palermo ha avviato accertamenti conoscitivi (al momento non una vera e propria inchiesta formale) per riaprire l’ennesimo fascicolo sulla pista dei killer neofascisti, la verità giudiziaria attuale parla di una condanna dei membri della Cupola come mandanti nel procedimento sui “delitti politici”, ma non c’è nessuna verità sui killer che spararono quel giorno nella centralissima via Libertà, davanti al cancello di casa Mattarella. Una pista, quella nera che porta ai Nuclei armati rivoluzionari (Nar), già battuta e fin qui finita in un fosso.

Giusva Fioravanti (all’anagrafe Giuseppe Valerio, condannato in via definitiva per la strage del 2 agosto 1980 nella stazione di Bologna) e Gilberto Cavallini erano i leader del gruppo di “spontaneisti neofascisti” (cit.: definizione di Fioravanti al processo sulla strage di Bologna) e sono già stati assolti da quella imputazione. Li rinviarono a giudizio Giovanni Falcone e il pool antimafia degli anni 80, ma la corte smentì e furono assolti da quell’accusa. Che ora ritorna.

Ma andiamo con ordine. Alla fine dei Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, Palermo era un campo di battaglia, sterminato, sfrontato. Una pampa selvaggia dove la mafia faceva quel che voleva. Ma di cui quasi tutti negavano l’esistenza; perfino i cardinali nelle loro omelie, sulla scia di monsignor Ernesto Ruffini che negli anni 60 disse: “La mafia è un’invenzione dei comunisti per far fuori la Dc”.

Ecco, in quel contesto, la mafia invece esisteva: nel breve spazio di pochi mesi, tra il 79 e l’80 uccideva presidenti della Regione, segretari provinciali Dc (Michele Reina), capi della squadra mobile (Boris Giuliano), carabinieri (Russo e Basile), procuratori della Repubblica (Gaetano Costa) e giudici istruttori (Cesare Terranova), giornalisti (Mario Francese) e di lì a poco capi dell’opposizione politica (Pio La Torre), prefetti (Carlo Alberto Dalla Chiesa), altri poliziotti (Ninni Cassarà), altri magistrati (Rocco Chinnici) e altri giornalisti. Delitti indisturbati, lo Stato dimezzato a Palermo da una “cosa che non esiste”?

E allora, visto che sono passati quasi quattro decenni, il fascicolo sulla “pista nera” per l’assassinio di Mattarella da dove può ripartire e dove potrebbe arrivare? Tutto ricomincia da una traccia già seguita da un magistrato romano esperto in trame nere, Loris D’Ambrosio, e ripresa dal giornalista Giovanni Grasso (oggi portavoce del presidente della Repubblica e fratello di Mattarella) che nel suo libro Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia (2014, Edizioni Paoline) scrive di due targhe rubate a Palermo e ritrovate nell’ottobre 1982 a Torino in via Monte Asolone, in un covo di Terza posizione, gruppo neofascista vicino ai Nar. Scrive Grasso: “Le due targhe rubate a Palermo erano PA 536623 e PA 540916. Non erano stati quindi utilizzati rispettivamente i caratteri PA53 della prima targa e 0916 della seconda. Gli stessi caratteri e gli stessi numeri rinvenuti, sia pure collocati in un ordine diverso, nel covo torinese”. Sono le due targhe false incollate sulla 127 usata 38 anni esatti fa dai killer di Mattarella a Palermo.

Molti pentiti di mafia, in questi decenni, hanno parlato di pista nera, sul caso Mattarella. Buscetta e Mannoja per negarla. Ciamcimino junior per confermarla e parlare di “uno scambio di favori” tra mafia e neofascisti.

A quel collegamento credeva giudiziariamente Giovanni Falcone tanto che da giudice istruttore firmò la richiesta di rinvio a giudizio per Fioravanti e Gilberto Cavallini. Ma, come detto, i due furono poi assolti. La richiesta di assoluzione fu fatta dall’allora pm palermitano Giuseppe Pignatone, oggi procuratore a Roma.

E allora, visto che Fioravanti e Cavallini non possono più essere processati per lo stesso reato, a cosa portano questi nuovi accertamenti conoscitiva? La Storia non si processa nei tribunali, è stato detto. Ed è così. Ma qui, secondo indiscrezioni non confermate, la procura di Palermo starebbe valutando altre “carte”: una intercettazione di un boss che parla di quella “pista nera” sul delitto Mattarella e la testimonianza di una parente di vittima politica di quel lontano capitolo di sangue a Palermo, un verbale già reso e mai preso in considerazione in aula. In uno di quei tanti delitti “politici” e irrisolti. Forse il delitto Reina, segretario Dc a Palermo, ucciso nove mesi prima di Mattarella, primo politico trucidato da Cosa nostra. Il testimone avrebbe riconosciuto Fioravanti come il killer di quest’altro delitto. Ora la Procura cerca di far quadrare il cerchio di questa storia. Ci riuscirà?