Diritti

Ti racconto la mia, quando l’occasione di lavoro diventa un ricatto – Le storie delle dipendenti d’azienda

La vita in azienda è fatta di gerarchie e di condivisioni, quotidiane. Tra le storie arrivate alla casella del Fatto tiraccontolamia@ilfattoquotidiano.it ci sono anche quelle di dipendenti che si trovano lentamente a dover accettare le attenzioni di superiori. Che poi si trasformano in altro. Caterina non entra nei dettagli, perché lei ha deciso di denunciare e c’è un processo in corso. Ma ha un ricordo nitido e sono le mani sul seno e sul sedere. “Pensavo fosse colpa mia”, è la frase che fa più rumore. Poi la solitudine. Tanta e sempre più profonda. Come quella di chi accetta in azienda le battute, ogni volta più pesanti delle altre. “Ti piace scopare eh?“, dice il capo alla neo-assunta mentre pulisce la sala ricevimenti con la scopa. Oppure “ma che bella posizione, la mia preferita”, sussurrato alla segretaria che studia le pratiche chinata sulla scrivania. Fino a Lara che durante una riunione tra dirigenti si è sentita dire: “Vi abbiamo fatto dirigenti, ora almeno state zitte”. Carla ricorda invece di quando aveva 25 anni e in azienda era arrivata per le sue qualità professionali. Dalla stima del capo alle mani sulla coscia è passato poco e prima di trovare la forza di reagire, ha dovuto aspettare giorni che sono poi diventati mesi. Perché sapeva avrebbe perso tutto quello che le spettava.

“Ricordo le sue mani sul mio sedere e sui miei seni, mi ci sono ammalata”  Lo sfogo di Caterina è molto personale. Racconta le dinamiche delle violenza psicologica di un superiore da cui, grazie al sostegno di un fidanzato e della famiglia è riuscita a sfuggire. Non entra nei dettagli perché, dice, c’è un processo in corso, ma la sua lettera parla del buio in cui si trova risucchiata una vittima sul luogo di lavoro. “Vorrei rimanere anonima, sia perché c’è una causa in corso, sia perché ho paura che lui mi faccia del male”, scrive. “Per anni ho subito abusi psicologici e molestie all’interno dell’azienda per cui lavoravo. Poco a poco mi sono spenta, ho perso interesse per la vita e mi sono ammalata. Fino a quando non ho trovato il coraggio di parlarne a casa e con l’aiuto della mia famiglia e del mio compagno sono riuscita ad andare via da quella prigione. È stato un processo lungo e dolorosissimo. Io non volevo più vivere, mi sentivo annientata, pensavo fosse colpa mia, pensavo di non valere nulla. Grazie all’aiuto di una psicologa piano piano sto tornando a vivere. Ma non mi sono mai sentita così sola e indifesa. Lui ha pensato bene di diffamarmi per fare in modo che rimanessi isolata e senza lavoro. Ora lo incontro per strada e mi fissa con uno sguardo di sfida che mi fa gelare il cuore e mi chiude lo stomaco. I pregiudizi sull’argomento sono così radicati che sono io ad essere stata isolata e non lui. Io non parlo mai di quello che mi è successo, perché spesso viene usato contro di me. Non voglio essere tutta la vita una vittima. Voglio tornare ad essere una donna”. Caterina parla di violenze subite che in un primo momento si illuse fossero casuali. “Nel concreto, ricordo ancora le sue mani sul mio sedere e sui miei seni. Le prime volte come fosse una casualità, poi sempre più insistenti al punto che evitavo di restare in ufficio da sola con lui. Ricordo che in un momento di rabbia ha preso la mia collega per un braccio strattonandola e facendole male. E io non ho saputo difenderla. E poi ricordo una ad una le umiliazioni a cui sono stata sottoposta. La violenza psicologica è più subdola di quella fisica perché non la riconosci subito e piano piano fiacca la tua volontà e alle umiliazioni ti abitui come fossero una componente normale del lavoro”.

Ti piace scopare eh? – La mail di Sabrina è molto breve. Parla di due episodi in particolare che ha deciso di condividere dopo una lunga carriera: entrambi risalgono ai primi anni di lavoro, quando era anche più difficile per lei poter reagire ai superiori. “A 21 anni sul posto di lavoro il mio capo mi palpò il sedere in presenza di altre persone”, scrive. “Io rimasi pietrificata, non feci nulla. A 22 anni sul posto di lavoro spazzavo una sala ricevimenti e il mio capo conosciuto da poche ore, mi urlò ‘ti piace scopare eh?’. Per non menzionare tutte le piccole molestie quotidiane che si subiscono, tutte TUTTE sminuite dagli uomini in primis, ma anche da molte donne”.

Finché non è arrivata una mano sulla coscia – Carla racconta di un momento preciso in cui la situazione le è sfuggita di mano. Di quando si è sentita intrappolata da un capo che la faceva sentire succube, come se non avesse altra scelta che accettare attenzioni e pressioni che la mettevano sempre meno a suo agio. “Ancor più difficile”, esordisce, “è quando l’abuso nasce a seguito di un rapporto di stima e fiducia. A me è successo, con il mio ex-capo, che dopo un paio di anni di normali rapporti lavorativi, ha iniziato ad avere uno strano atteggiamento, più confidenziale. Scherzava, mi coinvolgeva sui progetti, proponeva pause pranzo insieme. Finché non è arrivata una mano sulla coscia, all’improvviso, mentre guidavo. Mi ha scioccata, irrigidita. Avevo 25 anni e non sapevo come reagire. Ho fatto finta di niente ma poi le cose sono peggiorate e la libertà di alcuni gesti fuori luogo ha preso il sopravvento e non la ho saputa arginare. Non ho saputo reagire e mi sono sottomessa a questa situazione. Per sopravvivere, a un certo punto, ho pensato fosse ‘normale’, che avesse ragione lui. Nonostante i suoi figli, nonostante sua moglie lavorasse con noi. Mi sono fatta andar bene questa follia e ho iniziato ad integrarla nella mia realtà. A lavoro hanno iniziato a farmi terra bruciata intorno altri capi e colleghi, mi hanno iniziata ad additare come l’ambigua e ho iniziato a stare molto male, nonostante risultati professionali eccellenti e una brillante carriera. Ci ho messo tre anni di terapia e il mio lavoro (che alla fine ho lasciato, un contratto a tempo indeterminato) a capire che ero diventata completamente dipendente dal mio ‘aguzzino’. Da una persona che si era approfittata della sua posizione (e di una notevole differenza di età) e della mia fiducia. Proprio come succede con la sindrome di Stoccolma. Io che sono indipendente, forte, sicura di me e mi ritengo una donna libera. Solo adesso, che ho avuto il coraggio e la forza di voltare pagina, so quanto fossi succube e dipendente. Per questo motivo, sostengo tutte le donne che hanno subito abusi: perché spesso, anche nella situazione più ovvia, non si ha la forza di reagire per tanti motivi. Uno di questi, e forse il più vigliacco perché il più difficile da identificare, è la dipendenza psicologica che ti consuma, mano a mano, come una droga”.

Vi abbiamo fatto direttrici, ma ora almeno state zitte – Lara parla invece della sua esperienza come quadro dirigente di un importante gruppo bancario: del clima di battute e insinuazioni, più o meno pesanti, da parte dei vertici, ma anche degli episodi spiacevoli dei clienti quando vengono a contatto con una donna con responsabilità lavorative importanti. “Ho subito molestie sessuali a casa e frasi sessiste al lavoro”, racconta Lara. “Non le ho mai denunciate. Dal 2005 ho incominciato a ricoprire incarichi come quadro direttivo in un importante gruppo bancario e la mia crescita personale è spesso stata abbinata alla mia avvenenza fisica. Meno di 2 anni fa durante una riunione di manager della nostra area commerciale il nostro capo area per interrompere un brusio in sala composta logicamente da uomini e donne ha detto: ‘Vi abbiamo fatto direttrici ma ora almeno state zitte‘, incolpando del chiacchiericcio la platea femminile”. Questo è solo uno degli esempi fatti da Lara. “Spesso”, continua, “ci diceva: ‘Io non vi capisco se fossi figa altro che lavorare mi sposerei uno con i soldi e farei la mantenuta’. Nessuna di noi si è mai opposta a questo tipo di linguaggio, temendo ripercussioni lavorative. Non meno di qualche mese fa un mio cliente anziano si è preso la libertà di provare ad alzarmi una gonna lunga dicendo che dovevo mostrare di più le gambe. Queste situazioni mi paralizzano, non riesco  a reagire ed in qualche modo sento di esserne responsabile. Vi ho scritto perché voglio fare un piccolo passo per iniziare a cambiare qualcosa in questa società e per ribellarmi a quello che mi è successo”.

Ma che bella posizione, la mia preferita – Giulia non si chiama Giulia, ma ha scelto questo nome per raccontare la sua storia di segretaria. Lo fa in terza persona e l’episodio risale a poche ore prima di decidere di scrivere la mail. Il vice dice una frase sconveniente e alla reazione della ragazza, risponde offendendosi. Cioè punendo il piglio di chi non è stato, secondo lui, al gioco. E la differenza sta proprio lì. “Giulia fa la segretaria, è capace, efficiente e preparata. Ama il proprio lavoro. Sta studiando una pratica, nella sua stanza, in piedi, con i gomiti appoggiati sul tavolo che è di fronte alla sua scrivania. Non vuole sbagliare, ci tiene, è una perfezionista che non si concede distrazioni. Giulia studia le carte chinata sul faldone. Chinata sul faldone. ‘Ma che bella posizione, la mia preferita!’. La voce del vice. Giulia diventa di ghiaccio. Tra molestie sessuali e semplici ‘complimenti’ spesso la linea di confine è sfumata, difficile da definire. Non in questo caso. ‘Ma che bella posizione, la mia preferita!’ è chiaramente una battuta a sfondo sessuale. Giulia di ghiaccio con la voce che si rompe si sorprende di sé. Riesce a ribattere. Parla a voce alta e con gli occhi asciutti. Il tono aumenta, è una scala che sale la risposta di Giulia: ‘Questa battuta se la poteva risparmiare. Povere. Noi donne tutte’. Lui semplifica, ridacchia, omnia munda mundis, poi fa l’offeso; l’offensore fa l’offeso. Degrado, umiliazione. Giulia va in bagno, l’affanno nel respiro, la testa inclinata in avanti, affoga il pianto nel fazzoletto di carta. Il suo è un pianto che viene da lontano. Racconta. Agli altri. Ma anche gli altri semplificano. Che sarà mai, sei esagerata, fatti una risata”. Giulia parla e non trova l’appoggio di nessuno. “Nessuna solidarietà. Situazioni normalizzate, date per scontate, ovvie anche per le donne stesse, addomesticate a situazioni scoraggianti e squallide. Il sessismo è un’abitudine, una consuetudine assimilata da uomini e donne, fa parte della mentalità comune. Giulia è spaventata. Che stia perdendo ogni capacità di analisi obiettiva della situazione? Dopotutto è un soggetto fragile. Sa di esserlo. Un soggetto fragile. Forse la soglia della sua percezione di offesa della dignità è piuttosto bassa”. Il vice ha vinto: l’ha convinta che non c’era niente di male.

Se devi denunciare meglio non dirlo troppo in giro – Sara scrive una lunga lettera per raccontare di alcuni episodi vissuti sul luogo di lavoro, dove si sente costretta ad andare ogni giorno nonostante la mancanza di tutele e di sicurezza. In particolare ricorda l’approccio di un collega che un giorno lei ha deciso di segnalare. “Era talmente sfacciato e sgradevole che l’ho riferito al suo responsabile. Allora lui venne da me a lamentarsi, dicendo che ero la prima che gli aveva fatto questo, che avrei dovuto dirlo a lui e che se non ci stavo non avrei dovuto accettare quello che mi aveva offerto. Una persona veramente ridicola. Se ne parli con i responsabili e non lo riferisci in giro è più facile che ti aiutino. Ci tengono che la loro azienda mantenga l’aureola di santità, soprattutto se è famosa”.