Diritti

Molestie sul lavoro, “per il diritto conta il punto di vista della vittima”. Ecco a chi rivolgersi per denunciare

"Le intenzioni contano poco", spiega Marzia Barbera, ordinario di Diritto antidiscriminatorio. Per avere giustizia nei casi più gravi si può fare denuncia penale entro sei mesi dal fatto. L'altra strada è la causa civile per chiedere l'allontanamento del responsabile e il risarcimento del danno. Le consigliere di parità, se necessario, agiscono in giudizio per conto della donna. E i sindacati possono avviare una vertenza con l'azienda

Non è questione di punti di vista. E’ vero che un complimento pesante può essere uno scherzo innocuo o un’offesa che umilia, a seconda del punto di vista. Per questo il tema delle molestie nei luoghi di lavoro, su cui dopo il caso Weinstein hanno alzato il velo le campagne social #quellavoltache e #metoo, è considerato scivoloso. Ma, in un Paese in cui secondo l’Istat 9 donne su 100 hanno subito molestie o ricatti sessuali nel corso della vita lavorativa, il diritto una strada l’ha scelta. Ed è chiarissima. “Il punto di vista che conta per valutare che cosa è molestia sessuale è quello della vittima“, spiega a ilfattoquotidiano.it Marzia Barbera, ordinario di Diritto antidiscriminatorio all’università ed ex consigliera nazionale di parità. “Le intenzioni di chi la mette in atto contano poco”. I codici di condotta delle grandi aziende si allineano a questa impostazione, pur non prevedendo quasi mai figure neutrali a cui rivolgersi per segnalare i comportamenti censurabili. Chi subisce molestie o violenze – e anche una mano sulla coscia, come vedremo, può configurare una violenza – ha comunque molte opzioni per chiedere giustizia. Può presentare denuncia penale, fare causa civile per il risarcimento del danno ma anche rivolgersi al sindacato o alla consigliera di parità della sua provincia o Regione. Che è titolata ad agire in giudizio davanti al giudice del lavoro per conto della vittima o in suo supporto.

Il Codice del 2006: non serve dolo perché sia molestia – “In passato i giudici tendevano a cercare un punto di vista oggettivo e il risultato era che il comportamento percepito come molestia veniva derubricato come inoffensivo, scherzoso”, ricorda la docente. “Poi due direttive europee, recepite nel Codice delle pari opportunità del 2006, hanno chiarito che la prospettiva doveva essere rovesciata. Perché il diritto deve servire a proteggere la vittima che non ha la forza o la possibilità di dire no”. Per questo il Codice sancisce che sono molestie sessuali e costituiscono una forma di discriminazione tutti “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Non occorre che ci sia dolo, dunque: basta “l’effetto”.

Causa civile o vertenza sindacale se ci sono prove – “Nei casi più gravi naturalmente si ricorre al diritto penale. Ma quello antidiscriminatorio è molto efficace se si tratta di chiedere la cessazione della molestia, l’allontanamento del responsabile e il risarcimento“, continua Barbera. La consigliera provinciale di parità (sono 106, nominate dal ministero del Lavoro) è un pubblico ufficiale e può rivolgersi su delega della vittima al giudice del lavoro o al Tar o intervenire in giudizio al suo fianco, “ad adiuvandum”. “Ma il ruolo delle consigliere oggi è depotenziato perché non hanno fondi. Stando alla nostra esperienza, il primo punto di riferimento è il sindacato”, dice Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto contro le violenze della Uil. “Su 1000 persone che si rivolgono ai nostri sportelli, 150 denunciano molestie sessuali sul luogo di lavoro. In due casi su tre affrontiamo il problema aprendo una vertenza sindacale con l’azienda. Però la vittima deve portarci delle prove (video, foto, messaggi Whatsapp…). Noi facciamo delle verifiche con legali e psicologi e attiviamo una procedura per arrivare al trasferimento o all’azione disciplinare contro il molestatore”. Un iter, spiega Menelao, che spesso le lavoratrici preferiscono perché molto più breve rispetto alla causa civile per il risarcimento del danno e a quella penale. Punti di ascolto simili a quello della Uil sono previsti da un accordo quadro del 2016 tra Confindustria e i sindacati confederali, a cui hanno fatto seguito intese a livello locale. “In Trentino, per esempio, Cgil, Cisl e Uil hanno aperto uno sportello unitario”.

Quando fare denuncia penale – Ma se le prove non ci sono, perché il molestatore si è ben guardato dal mettere per iscritto l’avance indesiderata o il ricatto sessuale, quella strada diventa impraticabile. Non solo: “Se si sceglie la via stragiudiziale a volte è la lavoratrice a dover andare via”, avverte Chiara Vannoni, avvocato giuslavorista e consigliera di parità della città metropolitana di Milano. “Si pensi alle piccole aziende in cui magari il molestatore è il datore di lavoro. E’ quasi inevitabile che sia la lavoratrice a rinunciare al posto, accettando un risarcimento“. In questi casi può essere preferibile la denuncia penale. “Non occorre portare prove, perché saranno il pm e la polizia giudiziaria a fare le indagini”, spiega Vannoni.

Querela entro sei mesi. Perché ci sia molestia non serve contatto fisico – Bisogna però tenere presente che il tempo a disposizione è poco: il diritto di querela va esercitato entro tre mesi dalla molestia ed entro sei mesi se si è trattato di violenza sessuale. Il perimetro del penale, poi, è più ristretto rispetto all’illecito civile. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, per denunciare non è necessario che ci sia stato un contatto fisico, tanto meno un vero e proprio stupro. In base alla giurisprudenza di Cassazione, quando il colpevole ha dolosamente usato “espressioni volgari a sfondo sessuale” o ha messo in atto un “corteggiamento invasivo ed insistito” si applica la pena prevista dal codice per le molestie semplici: fino a sei mesi di carcere.

Si configura invece la violenza sessuale, punita con un massimo di 10 anni di prigione, quando qualcuno viene costretto a un atto sessuale usando la violenza o minacce oppure abusando della propria autorità o della sua “inferiorità fisica o psichica”. Situazioni frequenti nei posti di lavoro, quando il colpevole è il capo o una persona di grado superiore alla vittima. Fondamentale tenere presente che un “atto sessuale” non è necessariamente un rapporto completo: ricade nella definizione anche il gesto di appoggiare una mano su una zona erogena – e secondo diverse sentenze lo sono anche la coscia o il ginocchio – o dare un bacio sulle labbra contro il volere di chi lo riceve.