Società

Fine vita, se in Italia devi sperare di riuscire a morire

di Benedetto Debesi

Tre mesi di coma, uno dei quali in stato vegetativo. Qualche giorno fa è riuscita ad andarsene una persona operata a luglio al cuore e devastata dal diabete. L’unico organo che funzionava era il cuore. In verità non funzionava “sua sponte”, il cuore, ma grazie a un apparecchio elettrico che avevano impiantato per aiutare (o sostituire?) un ventricolo. Questo strumento era alimentato da una batteria esterna alla quale era collegato con un cavetto che dal cuore usciva sopra l’orecchio sinistro; hanno dovuto infatti stabilizzare questa “presa” fissandola in qualche modo alla scatola cranica perché non andasse qui e lì.

Operazione riuscita benissimo, peccato che nel giro di 24 ore si sia verificata una emorragia al cervello ed è subentrato il coma. “L’operazione è riuscita, il paziente è morto“. Mesi difficili nonostante la gentilezza e l’empatia del personale medico, soprattutto delle infermiere. E nessuna recriminazione nel merito. Solo che un giorno chiesi all’infermiera come andava: tutto nella norma – rispose – solo che aveva la pressione un po’ alta e abbiamo dovuto “sgonfiarla”. Disse proprio così: sgonfiarla! E ciò che mi colpì più di tutto fu la naturalezza con la quale lo disse.

A queste parole mi si aprì un mondo, e ripassai con altri occhi gli avvenimenti di quel periodo. Pressione alta? Ti sgonfiano. Pressione bassa? Ti gonfiano (non so le atm). Hai il sangue messo così e così? Poco male: ti infilano un tubetto in un braccio, lo collegano alla macchina e lo lavano. Non fai la pipì ? Pronti un catetere e un po’ di lasix. Non respiri tanto bene? Prima la mascherina di ossigeno, poi, se proprio non dovesse bastare, un buchetto sulla carotide ed ecco che entra l’aria.
E se  questo ti impedisce di mangiare, che problema c’è? Ti infiliamo un tubetto nello stomaco e ti pompiamo dentro un menù alla carta completo di carboidrati, proteine e vitamine per le calorie necessarie.

Se poi ti venisse di agitarti, beh via endovena va dentro di tutto. Un giorno contai 16 tubetti che confluivano nell’ago che aveva in vena. E con questo ti tengono “in vita”. Ma è vita questa? E’ giusto ostinarsi a far funzionare un meccanismo a tutti i costi? Perché così alla fine è stato: la persona non c’era più, funzionava solo la parte meccanica: “emodinamica perfetta” dicevano. E ci credo: aveva un motorino elettrico che fin che gli davi corrente funzionava, ed avrebbe funzionato fino a chissà quando, solo che lei finalmente è riuscita ad andarsene. Come non si sa e neppure a che prezzo.

Forse è morta soffocata? Insufficienza renale? Chissà tra quali feroci tormenti. Lei è sempre stata in coma, ma le persone che vivono tutto questo essendo coscienti? Sarebbe questa la “vita” che i vari movimenti, o pseudo tali, difendono? Guadagnare qualche ora di sofferenza per soddisfare la loro “etica” alla faccia della dignità che spetta di diritto a ciascun essere umano? Hanno mai visto (e vissuto) come si riduce, anche fisicamente, una persona che soffre in modo inenarrabile?

Riflettono su questo i laici e i confessionali che si oppongono alle leggi ed alle aperture del Papa, trincerandosi dietro alla “sacralità” della vita? Cosa c’è di sacro nel somministrare sofferenza? E, francamente, se proprio tanto ci tengono, che somministrino a se stessi le sofferenze, dove e come preferiscono. Ma lascino agli altri la libertà di scegliere. L’ unica cosa che mi viene da pensare è che tengano duro per restare il più possibile “aldiquà” semplicemente  perché hanno il terrore del giudizio che li aspetta “aldilà”.

A pensar male si fa peccato, ma…

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