Mondo

Usa-Cina, Trump a Pechino per nuovi accordi commerciali: più energia e meno hi-tech così da spingere l’occupazione

Se tutto andrà come sperato, dopo il viaggio in programma dall'8 al 10 novembre, Trump avrà dalla sua una serie di accordi a sostegno di quanto promesso in campagna elettorale: un ritorno di capitali negli Usa e nuovi posti di lavoro per gli americani. Solo la sigla di Sinopec potrebbe riuscire a ridurre il deficit commerciale con Pechino (pari a 347 miliardi nel 2016) di 10 miliardi di dollari l'anno

Ci sarà molta energia al centro dell’imminente visita di Donald Trump in Cina (8-10 novembre), tappa intermedia di una maratona asiatica che lo porterà in Giappone, Corea del Sud, Vietnam e Filippine. Secondo una lista preliminare visionata dalla stampa internazionale, il presidente americano viaggerà con una delegazione commerciale inusualmente sostanziosa, a conferma della vocazione business dell’ex tycoon. Sarebbero circa 100 le aziende ad aver fatto domanda, ma solo alcune decine (29 secondo Reuters, circa 40 per Bloomberg) quelle ad aver ricevuto il placet del Dipartimento del Commercio. Di queste, soltanto una parte marginale risulta composta da aziende tecnologiche (tra cui Qualcomm) e finanziarie a vantaggio del comparto energetico, delle commodities e dell’agribusiness. Una selezione naturale spiegabile alla luce delle investigazioni commerciali avviate da Washington contro le acquisizioni di Pechino nel comparto delle tecnologie avanzate e dalle recenti norme sulla cybersicurezza adottate dal governo cinese in materia di archiviazione dei dati.

La lista preliminare comprende la multinazionale statunitense attiva nel settore alimentare Archer Daniels Midland Co (ADM), DowDuPont, General Electrics, SolarReserve, Alaska Gasline Development Corp., e Delfin Midstream, società che opera nel gas naturale liquefatto. In tutto sarebbero ben dieci le compagnie energetiche pronte a fare i bagagli con prospettive di lucrosi accordi commerciali, compresa Cheniere Energy Inc, la società che gestisce l’unico terminal per l’export di gnl di tutti gli Stati Uniti.

Secondo Bloomberg, la maggior parte delle sinergie in corso di contrattazione assumeranno la forma di memorandum d’intesa non vincolanti. Tra questi ci sarebbe un piano d’investimento da 7 miliardi di dollari (e migliaia di nuovi posti di lavoro) di China Petroleum & Chemical Corp (meglio nota come Sinopec) in Texas e nelle Virgin Islands. Ancora in attesa di ricevere l’approvazione di entrambe le amministrazioni, il progetto – che vede la partecipazione di Arclight Capital, con base a Boston, e Freepoitn Commodities LLC, società di trading del Connecticut – dovrebbe includere la costruzione di una pipeline dal giacimento petrolifero di Permian, nel Texas occidentale, fino alla Costa del Golfo per totali 700 miglia (1.126 chilometri), oltre a un impianto di stoccaggio. Sinopec potrebbe inoltre incaricarsi dell’espansione del terminal di Lime Tree, a Saint Croix. Nel 2016, la Cina ha superato gli Usa diventando nuovamente il primo importare di crudo al mondo, mentre lo scorso aprile si è affermata come il primo acquirente di “oro nero” americano scavalcando il Canada.

Se tutto andrà come sperato, una volta rimpatriato, Trump avrà dalla sua una serie di accordi a sostegno di quanto promesso in campagna elettorale: un ritorno di capitali negli Usa e nuovi posti di lavoro per gli americani. Solo la sigla di Sinopec potrebbe riuscire a ridurre il deficit commerciale con Pechino (pari a 347 miliardi nel 2016) di 10 miliardi di dollari l’anno. Negli scorsi giorni, il segretario al Commercio Wilbur Ross – che affiancherà il presidente durante il tour – aveva affermato che The Donald cercherà di concludere accordi commerciali “tangibili” con Pechino, come quelli raggiunti da GE e Boeing a maggio in Arabia Saudita, sebbene questioni come l’accesso al mercato cinese, le tariffe commerciali e la tutela dei diritti di proprietà intellettuale richiederanno più tempo per essere risolte. Cominciando dalle cose facili, venerdì scorso, le due superpotenze hanno raggiunto una prima intesa sul riconoscimento delle reciproche misure di sicurezza per gli aeromobili; un simbolico passo avanti nella promozione dell’industria aeronautica asiatica che, ricambiando, si impegnerà presumibilmente a schiudere le porte alle vendite americane. Ma tra il business a stelle e strisce aleggia la preoccupazione che le nuove intese commerciali finiscano per distogliere l’attenzione da più impellenti soluzioni politiche di lungo respiro. Soprattutto assodata la dipendenza di Washington dall’aiuto cinese sul versante nordcoreano.

Dall’inizio dell’anno, le relazioni bilaterali hanno seguito un andamento ondivago, dall’idilliaco meeting tra Trump e il suo omologo cinese Xi Jinping a Mar-a-Lago – quando i due presidenti si erano impegnati a raddrizzare la bilancia commerciale nell’ambito di un piano in 100 giorni – fino al deludente U.S. – China Comprehensive Economic Dialogue, tenutosi a Washington nel mese di luglio e terminato senza nemmeno un comunicato congiunto. Di lì a poco l’inquilino della Casa Bianca sarebbe poi ricorso a Twitter per dare libero sfogo al proprio “disappunto” nei confronti dei precedenti leader americani, colpevoli di aver concesso alla Cina di intascarsi centinaia di miliardi di dollari l’anno in scambi commerciali senza fare nulla in cambio per fermare lo sviluppo nucleare della Corea del Nord. Da allora l’altalenante lunaticità di Trump ha permesso a Pechino di ricucire lo strappo grazie alla diligente implementazione delle sanzioni internazionali contro Pyongyang. Ma le frizioni commerciali continuano a minacciare la tutt’altro che granitica partnership sino-americana.

Alla fine dell’estate, la Casa Bianca ha bloccato l’acquisizione di Lattice Semiconductor da parte del fondo d’investimento cinese Canyon Bridge Capital Partners, citando motivazioni legate alla sicurezza nazionale. Appena pochi giorni fa Washington ha imposto nuove tariffe provvisorie, tra il 97 e il 162%, sulle importazioni di fogli di alluminio “made in China” in attesa che il prossimo febbraio venga rilasciato l’esito finale dell’investigazione sul presunto dumping cinese, uno dei tanti accertamenti lanciati recentemente contro il gigante asiatico. Ma, per il senatore democratico Chuck Schumer e altri, si tratterebbe del ruggito di una “tigre di carta”. Secondo il New York Times, Schumer si è detto pronto a ostacolare la nomina di candidati chiave nel dipartimento diretto da Ross, a meno che non vengano velocizzati i tempi d’indagine sulla condotta commerciale di Pechino. Qualcosa potrebbe uscire già a giorni. In una recente intervista alla stampa hongkonghese l’ex chief strategist Steve Bannon ha ventilato la possibilità che il risultato dell’indagine sul sospettato furto di proprietà intellettuale (avviata ad agosto) venga ufficializzato prima dell’arrivo di The Donald oltre la Muraglia, così da lasciare il tempo per una soluzione amichevole faccia a faccia. In caso di colpevolezza accertata, sulla base dell’obsoleta “sezione 301” del Trade Act of 1974, Trump sarebbe legittimato a sanzionare la seconda economia mondiale senza nemmeno bisogno di interpellare la Wto.