Società

Chiude la Comunità terapeutica di piazza Urbania, un simbolo della psichiatria romana

Da qualche settimana è stata chiusa la Comunità terapeutica di piazza Urbania a San Basilio: pochi conoscono la sua storia, che la rende un simbolo dell’assistenza psichiatrica romana. La racconto brevemente nella speranza di allontanare il rischio di una possibile rottamazione. A Roma l’inizio del cambiamento dell’assistenza psichiatrica risale agli anni 1974/1975. Fino ad allora il manicomio, il grande Santa Maria della Pietà, era l’unico presidio pubblico. Mancava qualsiasi parvenza di ambulatorio per la semplice ragione che chi stava male psicologicamente, o raccontava frottole o era veramente matto, e i matti dovevano andare in manicomio.

Verso la fine del 74 e l’inizio del 75 si aprì a via Sabrata il primo ambulatorio psichiatrico pubblico, con un bacino di utenza che corrispondeva all’intera capitale. Per la prima volta chiunque soffrisse di qualche malessere psichico aveva un luogo a cui potersi rivolgere per parlarne senza timore di essere necessariamente ricoverato. Il progetto romano prevedeva che ogni circoscrizione, allora erano venti, si dotasse di tutti quei servizi necessari ad una gestione moderna della psichiatria: ambulatori, centri diurni, case famiglia, comunità terapeutiche.

Il primo, e per lungo tempo unico presidio decentrato,  nato dalla capacità e dalla buona volontà di un politico, Nando Agostinelli (presidente della Provincia di Roma, da cui allora dipendeva la psichiatria) e di un primario psichiatra, Fausto Antonucci, prese corpo all’inizio del 1977 nel quartiere di San Basilio, a piazza Urbania 4, all’epoca ultima frontiera della periferia romana (da lì fino al raccordo tutti campi coltivati).

Gli abitanti di San Basilio non vedevano di buon occhio le istituzioni, erano ancora fresche le lotte per l’assegnazione delle case dello Iacp quando il tentativo di sgombero delle famiglie occupanti, il 5 settembre 1974, aveva portato alla morte un ragazzo di 19 anni, Fabrizio Ceruso.

Noi operatori del centro, in quanto rappresentanti delle istituzioni, eravamo visti come i nuovi invasori, forse i più subdoli, perché “con la scusa di curare” avremmo normalizzato la follia, impedito ogni devianza e trasgressione, fatto prevalere i valori di una borghesia benpensante.

La “piazzetta” era il ritrovo quotidiano dei ragazzi del quartiere, c’era solo un bar che ci servì per mille mediazioni,  e il capolinea di un autobus dell’Atac che, appena arrivato, non vedeva l’ora di ripartire. Le ostilità nei nostri confronti si concretizzarono fin dall’inizio con il furto metodico delle nostre auto. In realtà non si trattava di veri e propri furti ma di “appropriazioni indebite con destrezza”. Ci fu consigliato di non rivolgerci alla polizia, ma alle persone più influenti del luogo, che dopo la frase di rito, “vedo quello che posso fare”, puntualmente ce le facevano ritrovare e da quel momento le auto avevano una sorta di doppia appartenenza, non c’era più bisogno di rubarle perché potevano essere prese in prestito.

Questa continua mediazione portò a un cambiamento, la relazione divenne più comprensiva e rispettosa, ogni volta che ci riportavano il mezzo “preso in prestito” ci dicevano se dovevamo andare a denunciare il furto per cautelarci del suo uso illecito, o se era stata solo una passeggiata, o l’occasione di un amoreggiamento e quindi nessuna denuncia era necessaria.

All’epoca, i cancelli del centro erano chiusi da un lucchetto che i ragazzi riuscivano ad aprire e chiudere facilmente, a dimostrazione che i confini li decidevano loro, così come potevano chiuderci dentro le stanze mentre parlavamo con i pazienti, tanto che le terapie potevano durare ore prima che si potesse ritrovare la chiave. Sarà strano, ma a parte un atto provocatorio, come il trovare delle deiezioni sulle scrivanie, non è mai stato rubato nulla, quindi, in chiave psicoanalitica si potrebbe parlare di offerte e non di sottrazioni. Pian piano diventammo amici, alcuni di loro avevano fratelli o parenti seguiti da noi, altri, iscritti a psicologia, iniziarono a fare da mediatori, alcuni operai residenti a San Basilio passavano a trovarci dopo i turni di lavoro, accreditandoci così nei confronti della comunità.

Partecipammo spesso a quelli che allora si chiamavano comitati di quartiere per dare e ricevere spiegazioni. Fu un’opera di mediazione in cui la “psicoterapia” si faceva sia fuori che dentro le stanze, in cui noi, come simbolo dell’istituzione colonizzante, riuscimmo ad ottenere rispetto cercando di rispettare il più possibile e di cogliere i bisogni non solo concreti ma profondi delle persone con cui entravamo in contatto.

Vent’anni dopo, nel 1995 questa stessa sede fu trasformata in Comunità terapeutica, la seconda Comunità, dopo quella di Primavalle, gestita dal servizio pubblico. Si inserì subito nel circuito internazionale delle Comunità partecipando a scambi con altre realtà, specialmente del mondo anglosassone, nel progetto Community of communities e ricevendo gruppi di operatori provenienti da diversi Paesi. Ricevette la visita particolare di un gruppo di operatori cinesi, di Pechino, che la assunsero a modello di comunità territoriale.

La rete sociale ha continuato a alimentare l’identità della Comunità di piazza Urbania come “comunità di quartiere”, dove i cittadini potevano usufruire di servizi e avere accesso libero per stare insieme a pazienti e operatori anche nei momenti di festa.

Lavorare a San Basilio è stato difficile ma anche molto bello. Abbiamo reciprocamente dato e ricevuto, abbiamo vissuto un’epoca che ha generato modelli di relazione umana forse attualmente difficilmente ripetibili.

Per questo pensiamo che si debba fare il possibile per non perdere la funzione simbolica che questo cammino ha comportato.