Scuola

Università, la vergogna di dire a mio figlio che sono precaria

Ricerca Precaria ospita la storia di Francesca (nome di fantasia per tutelare la riservatezza) sulla difficoltà di raccontare, anche ai propri figli, cosa significa essere precari.

Mio figlio Matteo ha iniziato da poco la prima elementare. Come tanti bambini, all’inizio era un po’ spaventato per questa nuova esperienza. Il secondo giorno di scuola, ancora un po’ timoroso, per strada mi dice: «Mamma, tu insegni all’università, alla scuola dei ragazzi grandi, vero?». «Sì, amore» gli rispondo. Allora lui continua: «Senti mamma, quando sarò grande posso venire a scuola da te? Tu insegnerai ancora all’università?». Mi paralizzo. E penso che non lo so. Quello che dovrei dirgli, per essere sincera, è che lo spero tanto, ma proprio non lo so. Non dipende da me. E anzi, a dirla tutta, se dovessi scommettere punterei sul no: le probabilità di continuare la carriera accademica, per chi come me è precario, sono così basse che quasi fanno sorridere.

Secondo l’Adi, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, si aggirano intorno al 7%: un’indagine condotta pochi anni fa ha infatti mostrato che oltre il 93% delle ricercatrici e dei ricercatori che lavorano in università con contratti precari è destinato a essere espulso per sempre dal sistema italiano. Qualcuno andrà all’estero, qualcun altro cambierà lavoro. Gli altri, chissà.

Faccio un respiro e dico a mio figlio: «Certo Matteo, ci sarò eccome». In fondo è solo una piccola bugia, per rassicurare il mio bambino e farlo andare a scuola più sereno. Mentre la dico però non ho il coraggio di guardarlo negli occhi, perché dentro di me so che c’è dell’altro: io mi vergogno di dire al mio bambino che sono una precaria. Di confessargli che anche se ho più di quarant’anni e da quindici lavoro nello stesso dipartimento universitario, un contratto vero io non ce l’ho. Lui mi vede uscire di casa ogni mattina, per andare in ufficio o in aula o in laboratorio, e non sa che non sempre sono pagata, perché tra un incarico formale e l’altro possono esserci settimane o mesi di lavoro non retribuito. Non sa dei sacrifici che ho fatto e che un po’ ha pagato anche lui, come quando sono dovuta rientrare dalla maternità tre mesi dopo la sua nascita.

E così non mi resta che ripiegare su una bugia, sperando di potergli dire presto: «Amore, la mamma quando sarai grande insegnerà ancora all’università». Questa volta guardandolo negli occhi.