Società

Il Sessantotto è morto, viva il Sessantotto / 2° parte

Continua da qui

Ai sessantottini furbi, quelli che per esempio imposero il 30 politico, che poi finì per devastare la credibilità dell’università italiana, vanno aggiunte frotte di emuli tornacontisti: artisti, intellettuali, imprenditori & via discorrendo. Come, per esempio, quel quotatissimo artista già patron di una nota casa farmaceutica, che soleva girare con il distintivo di Mao Tse Tung in punta di berretto made in China. O quel compagno tridentino che più di sinistra di così, mentre oggi docente universitario nella stessa università, si pasce della sua scintillante Jaguar. O quell’ex contestatore doc che, sempre a Trento, organizzò una colletta, a cui gli artisti dell’arte povera così/detta parteciparono donando opere poi vendute all’asta, per acquistare una partita di armi… anche se c’è chi ancor oggi sostiene che ciò sarebbe frutto di fantasia, visto & considerato che, sempre secondo costoro, le Br non presero le mosse all’università tridentina, come taluni futuri membri di Lotta Indefessa ancora sostengono, al contrario di Mauro Rostagno che, dopo esserne uscito, produsse il manifesto Dopo Marx, aprile dichiarando: “Io, marxista d’avanguardia, una cagata senza precedenti” – la ragione principale della sua rimozione da parte dei suoi ex amici, fatto salvo Curcio che alla domanda di chi avesse ammazzato Rostagno, tra l’altro rispose: “Lo hanno ucciso perché ha detto, non dicendole in fondo, delle verità che sconquassano gli assetti del potere politico, perché ha tradito la solidarietà di chi infine si è legato a gruppi di potere che lui non amava, che lui non poteva accettare e ai quali non ha mai appartenuto. Per questo l’hanno ucciso!”.

Che dire infine di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore di sinistra per antonomasia, nonché “rivoluzionario dilettante di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in casa editrice” –  precisa Massimo Fini citando la seconda moglie del fu editore, vale a dire Sibilla Melega la quale, nella sua residenza nei pressi di Villach, quasi mi ammazzò dalle risate a forza di aneddoti sui vari tipi di travestimento, a cui il grande editore ricorreva per passare inosservato su un’ammaccata Volkswagen, tutte le volte che varcava la frontiera austriaca, per recarsi indisturbato nella sua immensa proprietà terriera in Carinzia.

Cosa lascia in eredità il ’68? Lo svecchiamento e la conseguente modernizzazione di questo ex bel paesino, bigotto, retrogrado e conservatore, aprendo a diritti civili già acquisti in altri paesi e società. Una liberazione sessuale sotto forma di ideale collettivo anche se, secondo Jean Baudrillard, si trattò di un’ulteriore ascesa dell’individualismo, il che è tutt’altro che negativo in un paese tradizionalmente pecorone e conformista. Infine, e soprattutto, il radicalismo chic e il politically correct che a quanto pare stanno favorendo le destre europee.

Cosa poi ne sia stato dei suoi protagonisti, partecipanti e comparse, dipese dal fatto che essi fossero o meno chierici rossi di una supposta rivoluzione proletaria indotta dai figli della borghesia, oppure ribelli tout court come nel caso del sottoscritto. Dove la differenza tra i primi e i secondi sta nel fatto che mentre i primi, presto o tardi si accontentano persino di farsi ridurre a nani & lacché, i ribelli continueranno a resistere fino alla fine dei loro giorni.

“A cinquant’anni di distanza dal ’68 e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati, dei sessantottini no” – conclude Massimo Fini su Fq Millennium – Sia pure invecchiati formano una potente frammassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Manconi, Sofri, Lerner sono i primi nomi che mi vengono in mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o manager, in età, trovi che molti hanno un passato extraparlamentare. Poi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne sbarazzeremo mai”.

Il sottoscritto invece, pur in sintonia con Fini che però non distingue tra i post sessantottini integrati e quelli che no, ricorda il ’68 trentino come il periodo più intenso, emozionante e divertente della sua vita – mood & climax nell’università di Trento erano assai diversi da quelli della Statale di Milano con i suoi katanga – nonostante il devastante primato della politica che oggi, come lucida/mente Emanuele Severino, ha imboccato la via del tramonto. Processo indubbiamente positivo. Tanto è vero che Rostagno, l’indiscusso carismatico leader del ’68 tridentino, durante l’assemblea del ventennale – A Trento vent’anni prima 1968/1988 – così concluse il suo ultimo, magistrale intervento: “… e meno male che non abbiamo vinto!”.

Un dettaglio, quest’ultimo, assai più importante di tutto l’insieme, che però da solo non basta a obnubilare la profonda delusione seguita all’abbandono dell’Università Critica che, geniale creatura sperimentale tutta interna al movimento della sociologica facoltà di Trento – a differenza dell’Università Negativa di Renato Curcio, sorta di premessa alle future Brigate Rosse – avrebbe potuto fungere da volano innovatore di tutta l’università italiana nel suo complesso. Ma purtroppo così non è stato. Forse perché, parafrasando Guy Debord: “Nel ’68 invece della contestazione dello Spettacolo, ci fu lo spettacolo della contestazione”. L’equivoco, letale, ha annientato la mia generazione e quelle susseguenti.

[FQ Millennium “Il ’68, cinquanta anni dopo” è in edicola per un mese]

Foto di proprietà dell’autore