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Catalogna, così Rajoy ha estremizzato il conflitto con Barcellona. Dagli accordi di Zapatero al muro contro muro

La violenza della Guardia Civil contro chi si è recato alle urne il primo ottobre ha trasformato l’ennesima consultazione pubblica, seppur incostituzionale, in una battaglia per la democrazia. Con questa scelta, il primo ministro ha probabilmente ottenuto l’effetto opposto: per evitare episodi di guerriglia Madrid dovrà necessariamente sedersi a un tavolo con il Presidente Carles Puigdemont e, questa volta sì, cedere ad alcune richieste

Rivendicazione, dialogo, accordo. Il rapporto tra i governi catalani e lo Stato centrale nell’epoca post-franchista si è sempre sviluppato secondo lo stesso schema. In alternativa, quando Madrid era troppo forte politicamente e, quindi, il potere contrattuale di Barcellona troppo inferiore, si è arrivati a un muro contro muro. Senza mai arrivare però, grazie anche alla non bellicosità dei movimenti indipendentisti catalani, allo scontro armato. Fino ad oggi, con l’ultimo referendum per l’indipendenza della Catalogna, quando il Primo Ministro spagnolo, Mariano Rajoy, ha deciso di rispondere con i manganelli alla volontà del popolo catalano di votare. Un pugno di ferro che gli si è rivoltato contro: con oltre 800 feriti lasciati per strada dalla Guadia Civil spagnola, quella che doveva essere una consultazione, seppur incostituzionale, per l’indipendenza è stata trasformata in una battaglia per la democrazia. Intanto, il leader del Partito Popolare di Catalogna, Xavier García Albiol, ha invocato una “massiccia” mobilitazione dei catalani non indipendentisti a Barcellona, domenica prossima, “in difesa della democrazia e la libertà”. Mossa che, di certo, non aiuterà ad abbassare i toni dello scontro.

Dopo la caduta del regime militare di Francisco Franco, la Spagna approvò la Costituzione del 1978 e, un anno dopo, la Catalogna poté vedere nero su bianco il nuovo Statuto di Autonomia. Da quel momento, i rapporti tra governo catalano ed esecutivo di Madrid si sono sempre sviluppati, con scontri più o meno accesi, secondo schema: rivendicazioni, dialogo, accordo. Modus operandi favorito anche da una delle caratteristiche che contraddistinguono il movimento indipendentista catalano da altri presenti in Spagna e nel resto d’Europa: uno spiccato pragmatismo che li ha sempre portati a cercare l’accordo a tavolino invece che la protesta di piazza o lo scontro armato. Caratteristica che li contraddistingue nettamente dai cugini baschi che, soprattutto tra gli anni ’70 e ’90, hanno insanguinato le strade della Spagna con episodi di vera e propria guerriglia urbana e con gli attacchi terroristici dell’Eta. Questa politica non ha mai permesso alla regione dell’Estelada di ottenere, ad esempio, le stesse concessioni fiscali riservate ai Paesi Baschi, i cui movimenti indipendentisti sono stati considerati per anni un pericolo alla sicurezza nazionale, nonostante la Catalogna rappresenti il motore economico spagnolo.

Concessioni importanti dal punto di vista culturale, ad esempio, ci sono state nella seconda metà degli anni ’90 e proprio da parte di quel Partito Popolare che oggi ha scatenato contro i catalani gli agenti della Guardia Civil in tenuta antisommossa. In quel periodo, il Premier José María Aznar era a capo di un esecutivo che ottenne la maggioranza relativa alle urne. Per poter governare, il leader dei Popolari dovette racimolare seggi accordandosi proprio con le formazioni dei partiti catalani, baschi e delle Canarie entrate in Parlamento. In cambio dell’appoggio politico, Jordi Pujol, allora Presidente della Generalitat de Catalunya, ottenne la totale autonomia sull’istruzione pubblica regionale e poté attuare un processo di catalanizzazione del sistema scolastico. Stessa cosa, però, non avvenne sulla questione economica: mentre i Paesi baschi avevano ottenuto un’autonomia quasi totale dal punto di vista fiscale, la Catalogna rimaneva ancora legata a Madrid, seppur con importanti agevolazioni. Quando Pujol tentò di battere cassa con Madrid, però, la situazione era cambiata: Aznar era stato nuovamente eletto alle politiche del 2000 e, questa volta, aveva ottenuto la maggioranza assoluta. Non aveva più bisogno dell’appoggio dei catalani in Parlamento e, così, rispedì la richiesta al mittente.

Ma passano quattro anni e l’alternanza al governo, con il primo esecutivo socialista di José Luis Zapatero, inaugura una nuova stagione di trattative, e di concessioni, sull’asse Barcellona-Madrid che culmina con l’accordo del 2006 sul nuovo Statuto d’Autonomia della Catalogna che accontentò la maggior parte dei partiti indipendentisti catalani e concesse maggior autonomia, anche fiscale, alla regione orientale spagnola.

Nello stesso periodo, però, un altro cambio a vertice influenzerà i rapporti tra Stato centrale e Catalogna: nel 2004, nuovo Presidente de Partito Popolare è diventato Mariano Rajoy che inaugura subito la linea del muro contro muro con Barcellona. E l’occasione è proprio lo Statuto del 2006 per il quale il partito chiede la revisione costituzionale. Il Tribunale spagnolo si pronuncerà solo nel 2010, dichiarando incostituzionali 14 articoli del documento, tra cui quello in cui si indica la Catalogna con il termine “Nazione”. La sentenza scatena la rabbia dei catalani che scendono in strada a milioni nel 2010, 2012 e 2013 al grido di “Siamo una Nazione e vogliamo decidere”.

Intanto, la crisi del 2008 ha piegato la testa alla Spagna, uno degli Stati europei più colpiti, e anche la Catalogna, nonostante sia la regione più ricca e produttiva del Paese, vede il suo debito con Madrid crescere sempre più velocemente, fino a superare i 70 miliardi di euro. Dopo i 552 referendum simbolici sull’indipendenza realizzati tra il 2009 e il 2011 in altrettanti comuni catalani, la stagione delle trattative si conclude nel dicembre 2011, quando a capo del governo sale proprio Mariano Rajoy. Alla richiesta di maggiori concessioni economiche da parte di Barcellona, il leader dei popolari risponde subito con un “no”.

Il pugno di ferro di Madrid accende, però, il sentimento indipendentista nella regione, tanto che sarà addirittura Artur Mas, allora a capo della Generalitat con la coalizione Convergenza e Unione (CiU), di stampo cristiano-democratica e dalle posizioni moderate, ad avviare il processo che, due anni dopo, porterà al primo referendum sull’indipendenza della Catalogna. In quell’occasione, l’atteggiamento del governo Rajoy fu fermo, ma attendista, evitando così di arrivare allo scontro violento. Il Premier dichiarò il referendum illegale secondo la Costituzione spagnola, ma non ostacolò il voto. Risultato: alle urne si recò il 37% degli aventi diritto, con l’indipendenza che vinse con l’80% di preferenze. Tradotto: la maggioranza dei catalani non è interessata alla separazione da Madrid e così, quando l’esecutivo di Barcellona chiese al governo centrale di indire un referendum che rispettasse gli standard legali spagnoli, la risposta fu un “no” supportato dagli stessi numeri del voto.

Niente nell’atteggiamento tenuto da Rajoy tre anni fa poteva far pensare a un cambio di strategia così drastico e potenzialmente autolesionista. La violenza messa in piazza dalla Guardia Civil contro chi si è recato alle urne il primo ottobre ha trasformato l’ennesima consultazione pubblica, seppur incostituzionale, in una battaglia per la democrazia, con lo Stato centrale a fare la parte di chi cerca di imbrigliarla. Con questa scelta, Rajoy ha probabilmente ottenuto l’effetto opposto: con il governo catalano che non si dice disponibile a un passo indietro, dopo le violenze commesse dalla polizia, per evitare episodi di guerriglia Madrid dovrà necessariamente sedersi a un tavolo con il Presidente Carles Puigdemont e, questa volta sì, cedere ad alcune richieste.

Twitter: @GianniRosini