Società

Amore, amici e lavoro: i giovani fuggono o si rintanano nel virtuale

di Marco Vitiello

In questi ultimi anni e in particolare in questi ultimi giorni si parla spesso del ritardo con cui i giovani sperimentano il passaggio alla vita adulta. Diversi studi longitudinali (prolungati nel tempo, nda) infatti, dimostrano come i giovani di oggi, rispetto a quelli di vent’anni fa, posticipano di alcuni anni le esperienze “chiave” di accesso alle fasi adulte della vita, come ad esempio le relazioni sentimentali significative, le relazioni amicali autonome (indipendenti dai genitori) e soprattutto le esperienze lavorative.

Appare quindi un quadro in cui i nostri giovani d’oggi sembrano più svogliati, più “bamboccioni” e spaventati dalle responsabilità. Una riflessione psicologica sull’età evolutiva si pone interrogativi sui cambiamenti della società che possono influire su questo ritardo e spuntano inevitabilmente le cause digitali (Internet, social media e smartphone), ma se consideriamo la prospettiva lavorativa forse ci sono responsabilità non relegabili solo alla famiglia, come spesso si induce a intendere.

C’è da chiedersi infatti, cosa fanno e cosa hanno fatto le istituzioni di “preparazione a” e del “mercato del” lavoro per far sì che le nuove generazioni siano pronte ad affrontare le nuove sfide. Dal 2000 a oggi è evidente che queste istituzioni, pubbliche e private, sono andate in crisi. Mancano riforme significative sia per la scuola che per il lavoro, siamo ancora ancorati a programmi didattici e personale scolastico “fermi” da decenni, per non parlare di politiche del lavoro e di transizione dalla scuola al lavoro che mutano in continuazione senza stabilizzare nulla, lasciando famiglie e giovani nel più totale disorientamento.

È chiaro che i genitori di oggi hanno perso autorevolezza anche nelle fasi di crescita e di apprendimento dei loro figli, che inevitabilmente passano anche per l’imitazione dei genitori stessi, proprio perché si ritrovano a 50 anni con una mancanza di prospettiva che aveva invece caratterizzato la generazione precedente, quella che affidava alle scuole professionali il futuro dei figli e che poi ha ottenuto conquiste sociali soprattutto in ambito lavorativo, per non parlare di modelli industriali “alla Olivetti” che valorizzavano lo sviluppo del personale sotto tutti i punti di vista.

Ma oggi a chi affidiamo i nostri figli? Quali sono le regole del lavoro a cui prepararli?

Sicuramente il lavoro e la vita in generale sono cambiati e il cambiamento va gestito, affrontato e non evitato, rimpiangendo un passato che non c’è più (reazione umana comunque fisiologica), ma la struttura sociale e istituzionale sembra brancolare nel buio e questo non può che generare ulteriore paura e fuga. Ci ritroviamo una classe dirigente nel migliore dei casi “vecchia”, quindi ancorata a modelli anacronistici, oppure figlia di quella mancanza di prospettive, quindi senza principi guida da diffondere.

Il risultato di queste congiunture che generano paura del futuro, è un allontanamento delle famiglie dalla partecipazione alla conformazione delle strutture sociali e istituzionali (forse anche un po’ voluta) e un atteggiamento di protezione (anche qui umanamente fisiologica) verso i figli.

Le stesse “cause” digitali di cui sopra, vengono sì studiate, ma nessuno è in grado di gestirle a livello strutturale. Allora perché non provare a spostare questa “finta socialità”, molto presente su Internet, verso una partecipazione fattiva al ripensamento dei modelli formativi, ma soprattutto di accesso e sviluppo nel mercato del lavoro, che inevitabilmente condiziona le vite della maggior parte delle famiglie, attraversando le generazioni nelle aspirazioni, ambizioni, valori, competenze e passioni.

Se la classe dirigente non è in grado di proporre modelli al passo con i tempi, è necessario che coinvolga attori sociali e professionali diversi e, soprattutto, vicini all’istituzione “famiglia” (ancora base portante del sistema sociale), per concorre alla definizione di aspetti della vita economico-sociale e per dar vita (per dirla alla Chomsky) a una società nuova, frutto dell’esperienza creatrice e dell’azione spontanea.

(*Psicologo e psicoterapeuta)