Politica

La solitudine di Luigi Di Maio e il destino del M5s

Diciamoci la verità: la leadership del Movimento cinque stelle è mai sembrata contendibile? No. Sapevamo tutti che il candidato premier sarebbe stato Luigi Di Maio ben prima che fosse ufficiale l’assenza di sfidanti all’altezza. E sappiamo anche che, qualunque sia l’investitura formale come capo del movimento per il vicepresidente della Camera, Beppe Grillo e Davide Casaleggio continueranno ad avere un ruolo fondamentale nelle scelte strategiche.

Gli avversari politici dei Cinque stelle colgono l’occasione per rilanciare le accuse sulla scarsa democrazia interna e sull’opacità di queste votazioni on line. Tutte osservazioni giuste, ma con un peso relativo.

Nel Pd, l’unico partito che abbia sperimentato delle primarie serie, non c’è mai stato un favorito che sia stato sconfitto, un esito davvero incerto. Nel 2012 Matteo Renzi ha sfidato Pier Luigi Bersani e ha perso come doveva, perché l’apparato era ancora a sostegno degli ex-Ds. Dopo i risultati elettorali deludenti, Renzi ha vinto ed è diventato segretario. Senza alcuna vera competizione (Gianni Cuperlo è una brava persona, ma non poteva certo farcela). In Forza Italia nessuno ha mai questionato la leadership carismatica e finanziaria di Silvio Berlusconi. Alle primarie della Lega, Matteo Salvini ha ottenuto l’82,7 per cento dei consensi contro lo sconosciuto Gianni Fava che si era candidato solo per salvare la dignità del partito ed evitare la corsa con un partecipante solo.

Ci sono state primarie migliori di quelle per i Cinque stelle e altre peggiori. Vero, i voti on line sono poco trasparenti, bisogna avere una grande fiducia nella Casaleggio e associati per non ipotizzare manipolazioni. Ma tutte le elezioni sono a rischio. Quando scrivevo per la Gazzetta di Modena, ero riuscito a votare cinque volte alle primarie che servivano a scegliere i parlamentari modenesi dei Ds. E quelli erano voti con effetti reali, mentre scegliere un candidato premier con una legge elettorale proporzionale è poco più che uno sforzo simbolico. Visto che il governo si costruisce dopo le elezioni e la guida viene affidata ai pontieri, ai costruttori di alleanze, non ai leader dei singoli partiti.

Le probabilità che Luigi Di Maio sia il prossimo premier, poi, sono vicine allo zero. Secondo l’ultimo sondaggio di Demopolis, il Movimento cinque stelle ha il 28,2 per cento dei consensi. E’ il primo partito, quindi Di Maio potrebbe ambire a ricevere da Sergio Mattarella l’incarico a formare un nuovo governo nel 2018. Ma poi dovrebbe andare in Parlamento e cercare un voto di fiducia dalla maggioranza. E a chi chiede i voti se M5s non vuole fare alleanze? Il ritornello per cui i Cinque stelle prendono voti di chiunque sui singoli provvedimenti qui non vale. La fiducia è un gesto politico che indica, di fatto, l’appartenenza a una medesima maggioranza di governo.

Più che discutere la qualità della selezione pentastellata, bisognerebbe chiedersi quale sarà il mandato di Di Maio: imprimere la svolta di governo al Movimento, aprendolo ad alleanze? Oppure sancirne l’irrilevanza confinandolo in una posizione marginale, un risultato ben misero per il leader del primo partito italiano.

L’altra questione su cui gli elettori M5s dovrebbero riflettere è la seguente: perché, in una intera legislatura, il Movimento non ha saputo far emergere una vera classe dirigente al suo interno? Di Maio era già abbastanza lanciato nel 2013 da diventare vicepresidente della Camera, nonostante il suo esile curriculum (eufemismo). Il vero limite di una struttura liquida come quella del M5s è di non offrire prospettive di crescita interna – di carriera – a chi dimostra capacità sul campo, anche per i limiti statutari su mandati e passaggi da un incarico all’altro.

E così le personalità che si sono affermate – da Roberto Fico a Roberta Lombardi – sembrano impegnate soprattutto a replicare tradizionali dinamiche di corrente invece che ad assumersi nuove responsabilità e offrire maggiori contributi.

Nel 2013, il risultato del M5s è stato imprevisto e ha colto impreparati tutti, anche e forse soprattutto i suoi vertici. Le prospettive per il 2018, almeno per quanto riguarda Camera e Senato, sono abbastanza chiare. Avere parlamentari di qualità e capaci di trattare da posizioni non subalterne con lobby e avversari politici sarà ancora più importante del destino personale di Luigi Di Maio.

Le primarie per il candidato premier, insomma, contano molto meno del processo con cui verranno selezionati i prossimi candidati deputati e senatori.