Società

Terrorismo e fanatismo, chi si immola non è pazzo (e per questo ci fa paura)

I recenti atti terroristici vengono compiuti da giovani che in nome di una ideologia fanatica vogliono distruggere gli avversari e sono disposti ad andare alla morte col sorriso sulle labbra. Alcuni pazienti mi chiedono: “Lei dottore cosa ne pensa? Sono tutti dei pazzi? O sono persone normali?”. Se fossero pazzi potremmo rassicurarci perché in questo modo li sentiremmo così diversi da noi, alieni da quello che è il nostro vissuto emotivo, al punto da non aver timore di arrivare ad essere come loro.

Non sono pazzi, almeno nel senso medico del termine. Non si tratta di schizofrenici o psicotici, ma di persone che, presumibilmente portatrici di vissuti emotivi complessi e problematici, sono sostanzialmente “normali”. L’aggressività che impersonano fino a sfociare in atti criminali purtroppo è parzialmente anche in noi. La troviamo in chi augura alle avversarie in politica di essere stuprate, in chi vorrebbe morto il suo competitore e per svilirlo ne storpia il nome (ad esempio “pidiota, 5stalle”).

Nel libro “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” Freud afferma che la folla tende a identificarsi con un capo che sostituisce l’ideale individuale e che viene osannato. Di converso si crea un odio speculare verso i nemici del capo, gli infedeli. I giovani musulmani fanatici che si immolano in attentati crudeli verso il nemico infedele vivono questa struttura archetipica molto antica ma che si ripete in modo sostanzialmente analogo nella storia attraverso fanatismi ed estremismi politici.

Sentirsi accettati nell’unione del gruppo di adepti è per loro il desiderio più intenso. Tanto elevato è il coinvolgimento nell’ “orda primitiva” che sorregge e accoglie da superare la barriera fisiologica che porterebbe ad avere paura della morte. Se si vive intensamente il senso di identificazione con il gruppo e il capo che lo rappresenta ogni barriera viene superata e si accetta di immolare se stessi per il bene dell’orda.

L’unico antidoto, oltre alla doverosa repressione, sul piano culturale è la valorizzazione del dubbio, dell’ascolto dell’altro, anche di colui che sentiamo in quel momento distante, il rifiuto dell’aggressività verbale e della denigrazione di colui che avversiamo.