Scuola

‘La peggior scuola’, superiori in quattro anni in nome della velocità che (non) ci chiede l’Europa

Da anni le “riforme” che hanno colpito (e con violenza) la scuola ammiccano a precocismo e rapidità: Berlinguer immaginò senza esito un ciclo di 7 anni, seguito da biennio comune e triennio specifico per i vari indirizzi; la scuola “delle 3i” di Moratti realizzò gli anticipi; e ora la secondaria di secondo grado “breve”, evergreen riproposto periodicamente. La velocità? Ce la chiede l’Europa!

Il ministro dell’Istruzione, università e ricerca (Miur) Valeria Fedeli ha appena firmato il piano di innovazione ordinamentale per sperimentare percorsi di 4 anni in licei e istituti tecnici. Al momento sono 12 le scuole che hanno ridotto di un anno i corsi di studi, con progetti di istituto autorizzati dal Miur: il bando ministeriale propone criteri comuni e prevede 100 classi in tutta Italia, dal settembre 2019.

Triste e nota tradizione, l’estate è foriera di (cattivi) consigli. Nel 2014 (all’epoca alla guida del ministero c’era Stefania Giannini) il capo gabinetto Alessandro Fusacchia e  il capo della segreteria tecnica Francesco Luccisano produssero uno sciatto documento, “La Buona Scuola”, per nulla apprezzato da parte di studenti, docenti e genitori e però propagandato da un governo cialtrone (con fasulli sondaggi d’opinione) come il migliore dei modelli possibili. Ne derivò poi la legge 107/2015, contro l’imponente mobilitazione dei diretti interessati, con scorciatoie parlamentari e voti di fiducia (la forma autoritaria della velocità). Già nell’estate del 2008, del resto, era stata varata la “riforma Gelmini”: la legge 133, non a caso ispirata al “contenimento di spesa nel pubblico impiego”, tagliò in modo spettacolare e drammatico posti di lavoro (e diritto all’apprendimento) nella scuola pubblica.

Ora il decreto Fedeli. Il Sole 24 ore, certo alieno da atteggiamenti eversivi, ha calcolato che l’andata a regime della riduzione di un anno di scuola farebbe risparmiare 1 miliardo e 380 milioni, 40mila cattedre in meno.

L’ennesima dilettante allo sbaraglio di Viale Trastevere ha peraltro adottato un impeccabile stile renziano: decreto che prospetta il taglio di un anno, deciso senza alcun riscontro sulle esperienze in atto, e per di più in grottesco conflitto con la presunta nobiltà del profilo professionale dei docenti, considerato circa un mese fa dalla medesima ministra decisivo per il destino del Paese e meritevole del raddoppio – a parole – dello stipendio.

Of course, i 100 progetti dovranno garantire, mediante flessibilità didattica e organizzativa, oltre a tutte le discipline previste dall’indirizzo, gli apprendimenti e le competenze ora previsti per il quinto anno; l’insegnamento di almeno una materia non linguistica con metodologia CLIL; la valorizzazione delle attività laboratoriali; oltre, ovviamente, all’utilizzo delle immancabili tecnologie didattiche. Tutto entro quattro anni. Identico e con identico valore il titolo di studio conseguito e identiche le modalità di esame.

Con un tempo scuola già ampiamente intaccato prima dalla riforma Gelmini e poi dall’alternanza scuola/lavoro, solo gli strateghi della pedagogia che hanno riproposto la sperimentazione sanno come realizzare tutto questo. Del resto, anche in questa occasione viene millantato (ancora in perfetto Renzi’s style) un inesistente diktat europeo: il percorso scolastico termina a 18 anni in 13 Paesi (tra cui Francia e Spagna) e a 19 in 15 Stati (tra cui la Germania), mentre in due casi è presente la doppia opzione. Il punto, al solito, è compromettere la dignità di insegnamento e apprendimento, far cassa sulla scuola e sulla sua funzione emancipante, mascherandosi dietro modernità e innovazione. Come ha osservato tra gli altri Marco Revelli, la scuola viene sempre più asservita alle esigenze del mercato del lavoro, perdendo la sua connotazione di luogo di cultura. Ovvero, l’istruzione pubblica viene indirizzata alla costruzione di cittadini acritici e quindi di lavoratori incapaci di esigere diritti, non sufficientemente colti da comprendere il legame imprescindibile tra la dignità del lavoro – di qualsiasi lavoro – e la completezza della propria istruzione: missione (quasi) compiuta.

Insomma: siamo con tutta evidenza di fronte a un altro passo dello smontaggio intenzionale della scuola della Repubblica, luogo di pratica e di diffusione di democrazia e di pensiero critico analitico, del tempo disteso della riflessione: un’azione costante, violentemente ideologica ed implacabile.

Da anni assistiamo a quella che troppo spesso rischiamo di considerare ineluttabile fatalità e che invece abbiamo noi stessi favorito con acquiescenza, disimpegno, facili entusiasmi su mantra linguistici – rapidità, competizione e competitività, modernità, flessibilità e tutti gli originali anglofoni che hanno eccitato le nostre (in)coscienze – che con bambini e ragazzi e con il loro apprendimento non hanno nulla a che fare. Toccherà ai collegi dei docenti esercitare, almeno questa volta, autonomia e sovranità, rigettando senza se e senza ma la seduzione di finanziamenti e di rendite di posizione nel mercato delle iscrizioni che la candidatura alla sperimentazione potrebbe favorire, per mantenere salda l’inviolabilità dei principi costituzionali che sono a fondamento dell’istruzione repubblicana.

Del resto, basta cogliere il tono assertivo e impregnato di tecnicismi (sempre anglofoni) del sito dell’istituto Carlo Anti di Verona, una delle scuole che già stanno sperimentando, per dare sostanza ad un esplicito rifiuto di una sperimentazione priva di qualsiasi base e volontà scientifica: “La riduzione di un anno di studio, in linea con i paesi europei, si realizza senza un particolare aumento di orario settimanale, attraverso una didattica innovativa che si avvale di piattaforme di e-learning, tutoraggio a distanza, utilizzando anche metodologie di  flip teaching e debate“. Molti di noi sanno bene che l’apprendimento significativo transita prevalentemente attraverso una relazione educativa efficace; che apprendere non è solo inscatolare, mettere crocette – magari online-, rubricare; ma è, piuttosto, metabolizzare in tempi lenti e distesi; che la cultura è emancipazione e che l’emancipazione è un processo complesso e non monodirezionale; che la fretta è nemica della riflessione; che il dubbio è elemento imprescindibile di crescita e maturazione e non si concilia con la velocità assurta a valore indiscutibile e con la velocizzazione, divenuta dogma (dis)educativo.