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Ankara, la Bruxelles di Turchia. Dove l’Islam è superstizione

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I giornalisti in genere vivono a Istanbul. “Ma perché ti sei scelto Ankara?”, ho detto guardandomi intorno a Davide Lerner, che scrive di Turchia per la Stampa, e invece abita qui. Uffici. Uffici. Banche. Altri uffici. “Ankara è così anonima”, gli ho detto.

Mi sbagliavo.

Ankara, che ha poco più di 5 milioni di abitanti, fu voluta come capitale da Atatürk nel 1923, alla fine della Prima guerra mondiale. Quando l’impero ottomano fu dissolto. E fu fondata la Turchia. Come paese completamente nuovo: che richiedeva, simbolicamente, una capitale nuova. Oggi è una di quelle tipiche città tutte vetro e acciaio, e sostanzialmente senza un vero centro, una città, appunto, tutta uffici e banche e ministeri: la città del lavoro, dell’efficienza. Del progresso. Una città che non ha turisti, perché non ha niente di particolare. O se non altro, così sembra. Perché invece Ankara ha una sua identità, precisa e potente quanto quella di Istanbul: un’identità che è il suo opposto. Ankara è una città di luce, di linee rette e geometrie, una città uniforme quanto Istanbul è una città di ombre, piuttosto, di ambiguità, una città di storie, di leggende e bassifondi. Ankara è lo specchio di Atatürk.

E infatti Erdogan, non a caso, si è scelto Istanbul.

Nelle nostre università, Atatürk ti viene insegnato come l’uomo che ha modernizzato la Turchia. Ma il piccolo museo sulla sua vita, che è a fianco della sua tomba, colpisce. Dopo fucili, orologi, uniformi, cimeli vari, le sale illustrano ognuna una delle sue tante riforme. Con parole che oggi in Europa, nella laica Europa, nessuno userebbe. Sostanzialmente la religione, e non solo l’Islam, la religione in generale, è liquidata come arretratezza. Non è solo una cosa da confinare nel privato: è una forma di superstizione che la ragione, gradualmente, la scienza, spazzeranno via. Le foto sono curiose. Sono le immagini di una cesura netta. C’è un prima e un dopo. Ma letteralmente. Da un giorno all’altro, i caffè ottomani sono sostituiti dai caffè francesi. Il fez dal panama. Le tuniche, da giacche e cravatte. Viene sostituito persino l’alfabeto: si passa da quello arabo a quello latino. Non è la modernizzazione della Turchia, è più esattamente l’occidentalizzazione della Turchia. Che a noi sembra normale, sembra giusta. Sembra il progresso. Appunto, la ragione. Ma perché siamo occidentali: perché per noi è così che una società deve essere.

Solo che il mondo è più largo dell’Occidente.

La Turchia attraversa un momento complesso. E molte cose lasciano perplessi. Però, per esempio, tra le tante leggi che abbiamo criticato, o comunque guardato con diffidenza, c’è l’abolizione del divieto di hijab. Ma perché, in Europa accetteremmo un divieto di hijab? Protesteremmo se fosse obbligatorio, certo: ma anche se fosse proibito. L’ultima delle leggi che abbiamo subito definito “un altro passo verso l’islamizzazione della Turchia” è quella che consente il matrimonio religioso. Ma perché, in Italia non abbiamo il matrimonio in chiesa?

Atatürk, sì, ha modernizzato la Turchia. E però con questa sua fede nella scienza, nella tecnica, nella logica, più che i laici mi ricorda i futuristi. E Ankara mi ricorda un po’ Bruxelles. Una certa Bruxelles: quella delle istituzioni europee. Sono molto simili. E non solo esteriormente. Anche lì si ha sempre questa sensazione di una città un po’ artificiale: e che infatti, al fondo, non esiste, è una città senz’anima, che al tramonto, a uffici chiusi, è deserta, perché è inutile, le città non si fondano a tavolino. Né i paesi. E quindi sì, Ankara mi ricorda un po’ Bruxelles.

Le sue geometrie. Le sue certezze.

Poi, per fortuna, l’Europa è molto di più.

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