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‘Ndrangheta, 7 anni di carcere per Rocco Dominello. È il capo ultras che ha avuto legami con i dirigenti della Juventus

Il tifoso è accusato dalla Direzione distrettuale antimafia di un tentato omicidio e di associazione mafiosa in quanto uomo della cosca Pesce di Rosarno (Rc). Suo padre Saverio, 62 anni, è stato condannato a dodici anni, un mese e dieci giorni per le stesse accuse e per due estorsioni

Sette anni e nove mesi di carcere per l’ultrà della Juventus esponente della ‘ndrangheta. Il tribunale di Torino ha condannato Rocco Dominello, 41 anni, leader di una sezione dei “Drughi”, una delle principali tifoserie organizzate della curva Sud, accusato dalla Direzione distrettuale antimafia di un tentato omicidio e di associazione mafiosa in quanto uomo della cosca Pesce di Rosarno (Rc). Suo padre Saverio, 62 anni, è stato condannato a dodici anni, un mese e dieci giorni per le stesse accuse e per due estorsioni. Altre undici persone hanno avuto pene tra i tre e i 15 anni, due hanno patteggiato, quattro sono state rinviate a giudizio e due assolte. È il primo esito del processo “Alto Piemonte”, nato dall’inchiesta della Squadra mobile della questura di Torino che un anno fa ha rivelato gli interessi della ‘ndrangheta nel bagarinaggio dei biglietti del club bianconero. Un’inchiesta che potrebbe costare caro alla Juventus e al suo presidente Andrea Agnelli, a rischio inibizione.

La sentenza è arrivata stasera. Il gup Giacomo Marson ha sostanzialmente accolto le richieste della procura di Torino. Si è discostato soltanto per pochi casi, come quello di Fabio Germani, fondatore dell’associazione “Italia bianconera” accusato di concorso esterno in associazione mafiosa: i pm ritenevano che avesse introdotto Rocco Dominello negli ambienti societari conoscendone l’estrazione familiare, ma per il giudice “il fatto non sussiste”. “Era un amico, si è trovato lì in mezzo, ma con calma è emersa la verità”, afferma il suo difensore, Michele Galasso.

Contrariati dalla condanna i difensori di Dominello: “La difesa non è stata ascoltata – ha affermato l’avvocato Cristina Morrone – Riteniamo che non avessero nessuna prova utile, soprattutto per il tentato omicidio, per il quale il padre si è assunto tutte le responsabilità”. Nel corso del processo Saverio Dominello aveva ammesso di aver fatto parte della ‘ndrangheta e si è dissociato per proteggere la famiglia, assumendosi la responsabilità del tentato omicidio a danni del gestore di un night club. Il figlio, aveva aggiunto, non sapeva nulla dei suoi legami mafiosi. Dal canto suo, il giovane Dominello aveva cercato di ribadire la propria innocenza fino all’ultimo: “Non sono mai stato ’ndranghetista e mai lo sarò”, ha detto stamattina al giudice. Ha anche spiegato di aver gestito lecitamente la compravendita di biglietti come rappresentante dei “Drughi” del Canavese: “Ci sono telefonate in cui il mio cliente chiede dei biglietti e gli viene risposto di no”, spiega l’avvocato Ivano Chiesa. Un’immagine ben diversa da quella emersa nell’inchiesta e da alcune intercettazioni di alcuni dirigenti juventini che lo descrivono come un capo ultras spuntato quasi all’improvviso, capace di tenere testa ad altri leader della curva e di gestire ricchi pacchetti di biglietti. Per i pm Dominello è soltanto un tassello di un puzzle più ampio nel quale i gruppi ultras e i loro affari illeciti sono protetti dalle organizzazioni criminali.

I contatti tra Dominello e i vertici della Juventus saranno al centro del processo sportivo che riprenderà il 15 settembre a Roma davanti al tribunale federale della Figc. Sotto accusa ci sono Andrea Agnelli, il security manager Alessandro d’Angelo, il responsabile della biglietteria Stefano Merulla e l’ex direttore commerciale Francesco Calvo. Sulla base degli atti della Dda sono accusati di aver intrattenuto rapporti illeciti con i gruppi di ultras e di averne sostenuto gli affari. Il procuratore federale Giuseppe Pecoraro contesta al presidente e d’Angelo anche “incontri con esponenti della malavita organizzata”. I quattro uomini e la Juventus rischiano una multa, mentre il presidente rischia anche l’inibizione dalla sua carica.