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Londra, attacco contro moschea: l’ora buia della legge del taglione

C’era da temerlo. E anche da aspettarselo. Che prima o poi scattasse l’atavico riflesso della legge del taglione – l’occhio per occhio, dente per dente della giustizia antica – o peggio ancora – e alla base di tutto – del ‘noi e loro’, gli altri, i diversi, i cattivi (tutti e indistintamente).

Quanto è accaduto a Londra la scorsa notte è il segnale che il livello di guardia è superato e che il rischio di esondazione della piena di odio e paura, di risentimento e frustrazione è ormai altissimo.

Può apparire assurdo, ma fin quando il livello ‘militare’ dell’attacco era alto, la tentazione della ritorsione ‘fai da te’ era bassa. Più il livello della provocazione s’abbassa, invece, più la ritorsione è possibile: viene facile, quasi istintiva, perché meno l’organizzazione è complessa, più è facile imitarla.

Per rispondere agli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, ci volle un corpo di spedizione americano (e non solo) in Afghanistan. A nessuno venne in mente – nonostante 15 dei 19 terroristi fossero sauditi – di prendere di mira edifici pubblici e grattacieli di Riad e di abbatterli con aerei sauditi dirottati.

Per replicare gli attacchi con furgoni sul ponte di Westminster – 22 marzo – e di Londra – 3 giugno – ci vuole poco. E la gente che esce da una moschea in una notte di Ramadan è vulnerabile – e innocente – come la gente sul sagrato di una chiesa all’uscita della messa della domenica o che passeggia sul lungomare in una sera di Festa nazionale – Nizza, 14 luglio 2016 – o s’aggira fra le bancarelle di un mercatino di Natale, Berlino, 19 dicembre 2016.

Reagire al terrorismo con un terrorismo di segno opposto, parimenti indiscriminato e criminale, non è in nessun modo ‘rendere la pariglia’ e tanto meno ‘fare giustizia’: è semplicemente fare del terrorismo. Ed alimentare una spirale di violenza e di sangue che rischia di coinvolgere, non come vittime, ma come protagonisti, anche soggetti non estremisti, o ‘radicalizzati’, come si dice oggi, ma semplicemente deboli o emotivamente stressati da un una percezione d’insicurezza latente e d’insufficiente tutela.

Perché appellarsi ai buoni sentimenti, ai divini comandamenti, ai codici di condotta etici della civile convivenza non basta, per evitare che la deriva della ritorsione scavi più profondo, dentro la società, il fossato della divisione. Ogni individuo ha sue responsabilità. Ma la collettività, lo Stato, deve fornirgli una tutela e dargliene la sensazione.

Altrimenti, scatta l’effetto ‘ciascuno per sé’: succede nelle tabaccherie della Bassa, davanti a un rapinatore che spiana la pistola; figuriamoci se non succede in una metropoli, quando ogni furgone viene sentito come una potenziale minaccia per sé e per la propria famiglia.

Theresa May è una specialista di formule tanto concise quanto poco pregnanti: ‘Brexit significa Brexit’, disse dopo il referendum; ‘Troppo è troppo’, disse dopo l’attacco al ponte di Londra. Forse ci deve pensare la regina, o forse William, o magari Beckam: ci vuole un ‘discorso del Re’ stile 3 settembre 1939, che restituisca ai londinesi, agli inglesi, ai britannici, uomini e donne, cristiani o musulmani che siano, l’ostinata ‘resilience’ di quegli anni.

La guerra al terrorismo è lunga e non si vince a colpi di furgone. Così, la si perde.