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Olanda, ancora nessun patto di coalizione: l’accordo è fermo ai rifugiati

In pochi avranno seguito le sorti dei Paesi Bassi, all’indomani del voto del 15 marzo scorso. Ondata populista arginata, sinistra rosso-verde quadruplica i consensi. Ecco un aggiornamento a distanza di oltre 90 giorni dalle elezioni: i negoziati per formare una coalizione “verde di destra”, con il partito del premier uscente Mark Rutte e la “sinistra-sinistra” sono naufragati sulla questione rifugiati. Da un po’ di tempo a questa parte, in Olanda, è come se avessero scoperchiato il vaso di Pandora: tutti rincorrono Wilders e la classe media radicalizzata, tanto a destra quanto a sinistra. Così, il premier Mark Rutte e il leader del partito cristiano democratico hanno capito che la faccia feroce contro i rifugiati paga in termini di consenso elettorale, tanto i profughi non votano. E più o meno lo ha capito anche il partito liberal-progressista D66, un giano bifronte che usa un vocabolario di sinistra ma attua politiche di destra.

I tre avevano un disperato bisogno della sinistra rosso-verde per formare un esecutivo, tanto per ragioni numeriche quanto nella speranza di strangolare il Groenlinks, premiato dal voto e dalla diaspora laburista – un partito ridotto ai minimi termini dopo aver fatto, per cinque anni, da stampella alla destra. Jesse Klaver, trentenne leader dei verdi, di origine marocchina è diventato una star della politica olandese e ha fatto fare al suo movimento il pieno di consensi proprio per i toni diversi da tutti sulla questione rifugiati: una tematica che, vale la pena ricordare, non fa guadagnare un voto. I colloqui sono franati perché i tre pretendevano di far digerire ai verdi, e al loro elettorato, un accordo che prevedeva accoglienza per i richiedenti asilo, ma “a casa loro”, estendendo ai paesi del Nord Africa, il termini del celebre accordo con la Turchia. Soldi, abbracci e riabilitazione di qualunque regime pur di fermare i partiti populisti, vero terrore di mercati e multinazionali.

Questo schema va osservato con attenzione perché è ormai un pattern europeo: la risposta pragmatica alle urla di certi populisti e sovranisti non è più “tutti fuori”, ma “nessuno dentro”. Cacciare via è costoso, anzi costosissimo. Bloccare i richiedenti asilo alla fonte, con l’aiuto dei carnefici, ossia con il sostegno di quei regimi dell’Africa a Nord dell’equatore dai quali i migranti fuggono, è invece un investimento. Infatti, in alcuni Stati come l’Egitto, la Libia, l’Eritrea e la Somalia, il rispetto degli standard minimi di tutela dei diritti umani da parte dei governi è quasi inesistente. E così, ecco risolta anche la seccatura di inchieste giornalistiche e monitoraggi da parte delle organizzazioni non governative.

Nel documento sottoposto a Klaver si è sfiorato il grottesco: il patto di coalizione proponeva accordi anche con Sudan ed Eritrea. Pensate un po’: contro il presidente sudanese Omar Al Bashir, nel 2007 è stato spiccato dalla Corte de l’Aja un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità e a lui, proprio a lui, Mark Rutte vorrebbe affidare il compito di frenare gli arrivi in Europa. Così Al Bashir non può mettere piede su suolo europeo, ma può ricevere fiumi di denaro che lo aiutino a bloccare la sua gente dalla fuga. Una forma di vera e propria corruzione internazionale legalizzata: il lavoro sporco, così, viene esternalizzato e affidato proprio a chi, a monte, è tra le cause del dissesto geopolitico del suo paese. Geniale e diabolico.

Su questo tema, i partiti di centro-destra olandesi continuano a ripetere alla nausea: l’accordo con Erdogan è legale e gli hotspot funzionano. I respingimenti (il cosiddetto refoulement) violano l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 e la Turchia, a meno che non vogliamo considerare golpe e repressione come complotti della lobby “pro rifugiati” è tutto tranne un’oasi di pace e democrazia. Ma questi sono dettagli, come disse anche il vice presidente della commissione europea, l’olandese-laburista Frans Timmermans: questo è l’unico modo per fermare il flusso. Per fortuna, e politici come Corbyn e Klaver l’hanno dimostrato, la parola “sinistra” significa ancora qualcosa.