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Eurozona, asse italo-franco-tedesco tra gli economisti: “Politici non attenti alle conseguenze delle mosse della Bce”

Lucrezia Reichlin sulla fine del Qe: "L’uscita da questa misura comporta certamente un rischio soprattutto per Paesi come il nostro che hanno un alto debito e contano su tassi bassi a lungo termine per il rifinanziamento del debito. E quando la Bce deciderà l’uscita, dovrà essere un momento di economia sufficientemente forte per affrontare questo rischio. Questo rischio non deve essere enfatizzato esageratamente. Però la situazione è abbastanza delicata perché bisognerà calibrare esattamente l’uscita"

L’Europa a due velocità? “Non vogliamo scegliere tra Lucrezia e Markus”. Jean Pisani-Ferry, professore di economia e consulente del presidente francese Emmanuel Macron, risponde con un’amara battuta alla domanda che mette in discussione l’intero progetto dell’Unione. “Noi non vogliamo far parte di un’unione monetaria solo con la Germania o senza la Germania. Non funziona, non è possibile”, esplicita la battuta Pisani-Ferry che a Parigi dal 2013 è commissario generale per la pianificazione strategica alle dirette dipendenze del primo ministro francese.  Accanto a lui, in un affollatissimo incontro del Festival dell’economia di Trento, sono seduti due colleghi: l’italiana Lucrezia Reichlin e il tedesco Markus Brunnermeier. Sul tavolo dei tre economisti c’è il futuro dell’Europa dopo che la Bce, tra settembre 2017 e metà 2018, avrà smesso di sostenere i Paesi più deboli immettendo liquidità nel sistema con il Quantitative easing. Per un motivo o per l’altro, la questione è cruciale per tutti e tre i Paesi idealmente rappresentati al tavolo. Per un’Italia che vorrebbe andare alle urne a settembre, in particolare, c’è da considerare il potenziale impatto sullo spread e quindi sul costo del debito pubblico con un rischio zavorra che si addensa sui già fragili conti dello Stato.

“L’uscita da questa misura comporta certamente un rischio soprattutto per Paesi come il nostro che hanno un alto debito e contano su tassi bassi  a lungo termine per il rifinanziamento del debito. E quando la Bce deciderà l’uscita, dovrà essere un momento di economia sufficientemente forte per affrontare questo rischio. Questo rischio non deve essere enfatizzato esageratamente. Però la situazione è abbastanza delicata perché bisognerà calibrare esattamente l’uscita”, sottolinea Reichlin. La professoressa di Economia alla London Business School e presidente del consiglio scientifico del think-tank Bruegel, ricorda al contempo che “il Qe non è una misura per salvare l’Italia o la Grecia o un altro Stato membro, ma è una misura macroeconomica che ha come obiettivo l’inflazione nell’Unione” e che  “ci sono problemi che non si leggono nei numeri del Pil, ma soprattutto le cifre del mercato del lavoro sembrano indicare che i numeri dell’inflazione non sono convincenti”. Il motivo? Anche se il costo della vita aumenta e l’occupazione recupera terreno, “i salari non salgono a sufficienza” probabilmente perché il tipo di lavoro creato appartiene alla sfera dei “contratti temporanei, interinali” che non assicurano stabilità al sistema economico.

Quindi la ripresa va rafforzata prima di sospendere il Qe. Tanto più che mentre gli economisti concordano nel prevedere un rialzo dei tassi d’interesse in seguito alle decisioni di Francoforte, quello che non si vede all’orizzonte è la consapevolezza dei decisori politici sulla necessità di operare cambiamenti radicali. “Converrebbe pensare ad un minimo comune denominatore di riforme da fare tra i membri Ue che condividono l’euro”, Reichlin. Coglie la palla al balzo Brunnermeier per il quale “vanno cercate soluzioni che possano funzionare con filosofie nazionali diverse: i titoli garantiti dal debito sovrano quali gli ESBies possono essere una soluzione”. E per Pisani-Ferry “va lasciata maggiore discrezionalità agli Stati, ma meno norme significa anche più responsabilità. E il problema sta proprio qui: il dibattito politico sull’uscita dal quantitative easing non è nemmeno lontanamente arrivato a discuterne, benché si sia un po’ tutti d’accordo sul voler mantenere in vita l’euro. Occorre impegnarsi su un obiettivo a lungo termine per affrontare questo periodo di transizione. Sarà comunque difficile obbligare un Paese ad attenersi alle regole in presenza di un sentire comune che rifiuta ormai le regole imposte dall’Europa. Diventerà centrale la questione degli asset sicuri, degli euro-bond”.

Respinta con decisione, poi, la via dell’Europa a due velocità. Per la Reichlin sarebbe un ritorno agli anni ‘90, quando “la Bundesbank aveva comunque un ruolo primario di leadership. Motivo per cui non potevamo ignorare la politica monetaria tedesca”. Meglio invece “una situazione in cui si partecipa alle decisioni collettive dell’area euro” perché “possiamo fare di più”. A patto però che la politica la smetta di addossare all’euro colpe non sue. “Molti pensano che tutto sia colpa dell’euro. I vari Paesi hanno problemi che vengono attribuiti all’euro ma in realtà non è l’euro il responsabile”, spiega Brunnermeier. “Immaginatevi una crisi come questa in Italia senza l’euro. Cosa sarebbe accaduto?” domanda provocatoriamente l’economista tedesco. Dal suo punto di vista, la situazione sarebbe stata drammatica: il tasso di cambio sarebbe schizzato alle stelle facendo fallire molte imprese. “Credo che, grazie la condivisione del rischio, l’Italia oggi possa stare meglio rispetto a come starebbe senza tutto questo – conclude l’esperto – Lo scenario alternativo sarebbe tutt’altro che roseo e questo nello scenario politico deve essere chiarito: lasciando l’euro sareste da soli ed è peggio. Non penso che essere da soli comporterebbe una situazione migliore”. Un messaggio chiaro, in vista delle urne, agli euroscettici italiani.