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Francesco Totti e Roberto Vecchioni? Due artisti, del gol perfetto e della canzone-poesia

Stadio Olimpico di Roma, 28 maggio 2017, ore 20:30 circa. Francesco Totti, di fronte a 70mila spettatori, sta leggendo la sua lettera d’addio; dice queste parole: “È impossibile raccontare 28 anni di storia in poche frasi. Mi piacerebbe farlo con una canzone o una poesia, ma non sono capace di scriverla e ho cercato in questi anni di esprimermi attraverso i miei piedi, con i quali mi viene tutto più semplice”.

Stadio del Mare di Pescara, 30 agosto 2014, ore 23:00 circa. Gli spettatori sono molti meno, ma qualche buon migliaio c’è. Roberto Vecchioni, che sto intervistando dal palco durante il suo concerto – ospite del Club Tenco – dice queste parole: “A volte la poesia che colpisce più al cuore ha un linguaggio semplice, forme popolari e… inaspettate: spesso trovo molta più poesia in una giocata di Totti che in un poeta intellettuale d’avanguardia”.

I due momenti hanno, ovviamente, un’importanza imparagonabile e sono qui accostati solo per la vicinanza di contenuto. Una vicinanza, però, sorprendente e molto condivisibile. Trascendono il significato puro del termine ‘poesia’, si riferiscono beninteso a quanto di poetico possano darci le situazioni inaspettate: un momento, un attimo non previsto e in cui la vita non segue il suo naturale corso, ma ci sorprende e mostra il nervo scoperto della meraviglia. In quell’attimo, in quel preciso attimo, un calciatore, un poeta o un cantautore riescono a esprimersi in maniera comprensibile per tutti, con una soluzione del tutto personale, fuori dalla consuetudine. Ci permettono così di vedere il mondo da un’altra prospettiva. È lì che il talento cede il passo al genio: quando le regole vengono infrante in maniera incredibilmente naturale.

Totti e Vecchioni lo hanno fatto spesso. Vediamo due esempi.

A mio giudizio, il gol più bello di Totti è quello del 2006 contro la Sampdoria. Azione confusa sulla trequarti; la palla, ribattuta dalla difesa della Samp, capita a Cassetti, che la allarga con un traversone alto sulla sinistra per Totti, molto defilato rispetto alla porta. Normalmente lì un giocatore stoppa, se ne è capace magari anche elegantemente, e la mette in mezzo; alcuni giocatori più audaci pensano persino di metterla dentro al volo per il centravanti, si spera vigile e rapace.

Totti no, Totti infrange le regole in maniera naturale e si coordina per un collo esterno di sinistro che si infila al secondo palo. È un attimo, un momento, l’anello che non tiene la catena della consuetudine: la palla intraprende la sottile, unica traiettoria consentita tra il secondo palo e la mano del portiere, finendo la sua corsa con un rimbalzo geometrico e preciso a fil di montante; c’era lo spazio solo perché passasse di lì, l’angolazione non permetteva errori, nemmeno di qualche centimetro e l’effetto impresso col collo sinistro consente una curva che costruisce una parabola il cui vertice è costituito dai guantoni dell’estremo, inerme difensore. Un miracolo di balistica, precisione, potenza.

Sempre a mio giudizio, la canzone più bella di Roberto Vecchioni è Le rose blu, del 2007.

È un uomo che parla e chiede a Dio la guarigione del figlio da una brutta malattia. In cambio non dà la sua vita, perché – nella sua ottica cristiana – la vita è stato Dio stesso a dargliela, quindi quest’ultimo può riprendersela quando vuole, e in ciò quindi l’uomo nulla potrebbe dare in cambio. No, l’uomo offre quello che lo rende tale: il suo libero arbitrio, non la vita ma quello che ha vissuto, gli amori, le scelte, le emozioni che ha provato. Non l’involucro, ma il contenuto, ciò che è solo suo e di nessun altro. L’io poetico è disposto a privarsi di tutto questo pur di riavere la felicità del figlio, simboleggiata dalle rose blu. Pochi fronzoli: si è di fronte a Dio e gli si deve fare una richiesta chiara e inequivocabile; è uno scacco in cui – anche qui – Vecchioni infrange le regole in maniera naturale, come naturale è l’amore e la sua disperazione, come Orfeo che scende negli inferi per richiedere la sua Euridice, tramite il canto. E il canto è un canto fermo, con armonia immobile che indugia su uno stesso accordo per molti versi, con ritmo ascendente, quindi incalzante, fatto di anapesti e di giambi. L’interpretazione stessa richiede fermezza, abilità marmorea di non sprecare un gesto, non uno sguardo fuori posto: ci vuole una precisione pazzesca, altrimenti la credibilità si perde e la canzone implode.

Due mondi, quello di Totti e di Vecchioni, tanto lontani all’apparenza, risultano in questo modo due linguaggi attraverso i quali l’artista riesce a illuminare, anche solo per un attimo, il miracolo segreto e inafferrabile in cui tutto si dispone al proprio posto.