Mondo

Torna il dispotismo orientale? Ambiguità e contraddizioni di un comodo, vecchio stereotipo

Regimi dittatoriali, tiranni e violazione dei diritti dei cittadini sono ancora appannaggio d’intere aree del mondo che vi sarebbero ‘destinate’ per loro stessa natura.

di Paolo Branca* 

Riprendo la definizione dal dizionario Zanichelli: “Nel concetto di ‘dispotismo orientale’ si espresse attraverso tutto il pensiero politico occidentale, l’idea che fuori dall’Europa esistesse in modo tipico una forma di governo nel quale il potere non è limitato dalle leggi e in cui il rapporto tra il sovrano e i sudditi si configura come un rapporto tra padrone e schiavi”. Guardando al Medio Oriente e al Nord-Africa contemporanei, per tacere di altre zone dell’Asia e dell’Africa, tale definizione sembrerebbe trovare la sua ennesima conferma nel caos d’intere aree a noi sorprendentemente prossime.

Tuttavia si tratta di un’evidenza tutt’altro che palese.

Usciti dal periodo coloniale, molti di questi paesi hanno vissuto l’intensa stagione della loro indipendenza dovuta però a colpi di Stato militari, a regimi nominalmente nazionalisti e poi rivoluzionari, ma in realtà dittatoriali, a partito unico e con terribili limitazioni allo sviluppo della classe media e di tutti quei “corpi intermedi” indispensabili alla società civile: partiti, sindacati, associazioni indipendenti e via dicendo.

La democrazia non deriva magicamente dal depositare schede elettorali in un’urna: dovremmo averlo appreso già dalla nostra storia, ben prima di immischiarci in quelle altrui.
Purtroppo sembra che dall’esperienza non s’impari nulla, e così si resta legati a schemi ideologici futili e ingannevoli che ci cullano nell’illusione di appartenere a una civiltà superiore per propri indole e destino.

Le cose paiono assai diverse a un’analisi attenta e spassionata. Non è certo il Corano né qualsiasi altra tradizione filosofica o teologica a impedire a troppi popoli di avere un governo almeno decente. Basterebbe parlare la lingua locale e viverci, in questi paesi, possibilmente non in alberghi a 5 stelle e con corrispondenti locali anglofoni che ti dicono quel che ti aspetti per pura compiacenza.

La corruzione e la legge del più forte, del potente o prepotente che può disporre degli altri a suo piacimento, è la regola ancora in troppi paesi del mondo, con tutto il nostro tacito assenso e qualche evidente e plateale complicità.

Vista la riduzione dei confini e la globalizzazione in atto, la sorte dei nostri vicini non può più essere considerata una questione “esotica”. Chi fugge dall’inferno verrà a cercare sempre di più una possibile alternativa dalle nostre parti, anche per lo spaventoso deficit demografico che ormai ci caratterizza in barba a tutte le vanamente invocate radici giudaico-cristiane di un Occidente che ha perso tutto il suo smalto e rivela ogni giorno di più la sua profonda crisi etica ed estetica (il buono non può ch’esser bello e viceversa).

I terrori sono nel contempo, squilli di tromba, segnali di un pericolo diverso da quello simulato dal conflitto storico; ricordano gli interrogativi sempre più assillanti che gli uomini hanno di fronte, nessuno può esimersi dal rispondere. Il Trattato del Ribelle, di E. Junger.

Le varie agenzie internazionali, sempre meno credibili, dovrebbero porsi un obiettivo minimale, ma ormai inevitabile: qualsiasi governo che non garantisca un minimo di decenza nei rapporti coi suoi cittadini dovrebbe essere bandito dal consesso delle nazioni se non punito con sanzioni o addirittura rimosso. Non tanto per benevolenza, ma per pura convenienza: tollerare condizioni invivibili per troppi “a casa loro” prima o poi determinerà inevitabilmente ripercussioni “a casa nostra”.

Come si può accettare che paesi interi come l’Iraq, la Siria e la Libia siano diventati un veri e propri inferni in terra per i loro stessi abitanti? O che in Turchia ai professori dissidenti sia stato tolto non solo il lavoro ma la laurea e la licenza universitaria per l’insegnamento?

Gli unici valori non negoziabili si rivelano essere quelli legati a interessi materiali di ben pochi orizzonti a medio-lungo termine.
È tempo ormai di un profondo e radicale esame di coscienza, senza il quale le prossime generazioni rischiano di dover affrontare centuplicate le emergenze di cui tanto ci lamentiamo oggi.

Del resto, se non sappiamo neppure cosa fare per garantire il futuro dei nostri stessi figli, come potremmo rivelarci più lungimiranti sul destino altrui?
Eppure, come spesso accade, prendersi cura delle ferite di altri, guarisce le nostre: ferite che guariscono in senso riflessivo prima che transitivo.
È l’insegnamento di ogni etica e di ogni autentica religiosità, il resto conta poco o può risultare persino un alibi, come detto alla nausea da ogni profeta degno di questo nome.

Visto che qualche settimana fa si è celebrata la donna, mi permetto di segnalare un fatto curioso, presente nelle Sacre Scritture di varie religioni che attesta come appellarsi al nostro femminile possa essere una strada percorribile. Lo “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” dopo la creazione del mondo è in ebraico Ruah, termine femminile e il verbo “aleggiava” ammette anche un’altra traduzione: “covava”. Anche nel tanto vituperato Corano è nascosto qualcosa di simile: la celebre invocazione che apre 113 capitoli su 114 (e guarda caso l’unico che non la riporta è quello che contiene il “versetto della spada” che tronca ogni possibilità di conciliazioni coi nemici) chiama Iddio al-Rahmàn/al-Rahìm (il Misericordioso/il Clemente) dalla stessa radice della parola “utero”. Un legame materno distingue all’origine dunque la relazione fra Creatore e creature, anche se fatalmente nel corso dei secoli una visione maschile di Dio come legislatore e giudice è infine prevalsa un po’ ovunque.
Per spegnere un fuoco avremmo a disposizione dunque un fuoco più grande (e “fuoco” in arabo è femminile).

*Paolo Branca è professore di islamistica, lingua e cultura araba all’Università Cattolica di Milano