Società

Scampia e gli altri ‘deserti’, perché nessuno vuole salvare le periferie

Scampia nell’immaginario nazionale è sobborgo emarginato e ostaggio della malavita. Periferia della periferia per definizione, catalizzatore di iniziative di recupero, reinserimento sociale (a quale sociale?) non passa tuttavia giorno che non se ne parli sui mass media. Non si senta sola Scampia, l’attuale modello neoliberale ha prodotto ulteriori versioni delle periferie italiane: condizioni di degrado spesso materiale quasi sempre esistenziale, antropologie geneticamente modificate dal mercato (altro che immigrazione) vita della comunità umiliata e ridotta a puro conto economico finanziario.

Scampia è dunque una delle tante periferie, forse la più fortunata: i riflettori sono accesi, la stampa vigila, si organizzano iniziative sportive e culturali, gli educatori si danno da fare, più che altro tramite “cooperative” con contratti spesso precari e al minimo sindacale, un disagio versione light, un pochino più sofisticato ed emancipato. Ovviamente ciò che viene fatto a Scampia è prezioso e mai abbastanza.

Ma dove sono Corea, Begato, Melara, Borgo Stazione, Tre Casuzze, Bissuola, Braida, Case popolari Iolo, San Polo, Piano San Lazzaro, Aranceto-Corvo- Pistoia, ecc.? Nell’ultimo trentennio invece di proteggere e valorizzare le conquiste sociali, il territorio e l’ambiente, i gestori della “cosa pubblica” hanno fatto marchette a norma di legge per conto della finanza speculativa, dando via libera, per esempio, a centri commerciali, sale da gioco e affini. Non è neanche più il caso di scomodare vomitevoli categorie sinistra/centro/destra ma di un trasversale “romanticismo neoliberista” assurto a forma di vita (Ginsborg e Labate, Passioni e politica, Einaudi 2016).

Morta per inedia la piccola impresa, via alle deroghe urbanistiche e relative conseguenze, cinema e teatri comunali e di parrocchia di periferia falcidiati dalla logica della centralità e del calcolo, et voilà, eccovi un tessuto socio-culturale della periferia italiana sbrindellato e post-umano che senza soluzione di continuità si approssima minaccioso al “centro”.

Meglio allora correre ai ripari: “+250 telecamere per una Verona più sicura”, afferma orgoglioso il manifesto politico 6X3 mt del Sindaco uscente della città veneta, proclamando ai cittadini l’orgoglio del panottico “capitalismo fortezza”: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Tacito). Incalzano comunque le periferie abbruttite esteticamente e abbandonate al silenzio assordante del vuoto culturale, dell’assenza del protagonismo giovanile e di partecipazione popolare, segnate dai lunghi e trans-generazionali pomeriggi d’inedia nella mancanza di luoghi di aggregazione che non siano giardinetti, il bar e relativo pedaggio alcolico, o il rincoglionimento lento e graduale con stupefacenti quali smart phone, cocaina ecc. e, per i meno pretenziosi, rimane sempre la nazionalpopolare tv “deficiente”.

Quante telecamere sono state attivate e quanti teatri, cinema e luoghi culturali di aggregazione chiusi (o sottratti dalla logica del mercato) o mai aperti? Siamo caduti nel tranello delle paure alimentate ad arte, stiamo sperimentando il non senso travestito dal buon senso della società disciplinare, quello che in nome della sicurezza urbana struttura una esistenza disidratata e unidimensionale, scandita soltanto da norme utilitaristiche, dove il cittadino disadattato al sistema è libero di autodistruggersi ma con discrezione, senza turbare le apparenze. Chi non è di Livorno, Genova, Trieste, Udine, Ragusa, Mestre, Sassuolo, Prato, Brescia, Ancona, Catanzaro sa che l’elenco dei deserti densamente popolati è molto più lungo.

Senza astrarsi dalla situazione reale, in prefazione del libro dell’urbanista Paolo Berdini e dall’eloquente titolo Le città fallite, Paolo Maddalena indica una possibile strada per continuare a resistere alla deriva del Social market economy e l’ottusa malafede degli enti “superiori” preposti alle politiche socioculturali: “Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio (all’epoca Renzi, Nda). Si tratta di applicare il principio di ‘partecipazione popolare’, previsto, anche come ‘diritto di resistenza’, dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di Sussidiarietà”.