Diritti

Dj Fabo morto in esilio da uno Stato che non decide

Cieco e tetraplegico da oltre due anni a seguito di un incidente stradale, Dj Fabo, 39 anni, ha finalmente trovato una “morte degna”, grazie all’aiuto dell’Associazione Luca Coscioni e soprattutto al coraggio di Marco Cappato, che lo ha accompagnato in una delle cliniche svizzere che praticano il suicidio assistito. Cappato sfida così – e non è la prima volta – i dettami di un articolo del codice penale che per l’aiuto al suicidio prevede fino a 12 anni di carcere: un codice che possiamo definire clerico/fascista visto che è stato emanato nel 1930, con il regime fascista trionfante e solo un anno dopo la firma del Concordato, di cui ancora oggi paghiamo il prezzo in termini di ingerenza della Chiesa nelle vicende italiane.

Proprio oggi la legge sul testamento biologico – che in una precedente legislatura, Berlusconi regnante, aveva rischiato di essere approvata nella forma indecente del “decreto Calabrò” – doveva passare all’esame dell’Aula della Camera, dopo un intero anno di dibattito nelle Commissioni competenti, necessario per superare l’ostruzionismo dei parlamentari teodem e la selva dei loro oltre tremila emendamenti. E invece, apprendiamo di un nuovo rinvio.

L’associazione Coscioni, con il sostegno di un Interguppo di oltre 70 fra deputati e senatori, era riuscita a far calendarizzare alla Camera sia la legge sull’eutanasia sia quella sul testamento biologico (più correttamente Dat-Disposizioni Anticipate di Trattamento). Naturalmente, il tema dell’eutanasia (la prima proposta in merito fu presentata oltre 30 anni fa, nel 1985, da Loris Fortuna, “padre” del divorzio) è stato subito stralciato e rinviato a data da destinarsi: la prossima legislatura? E’ invece andata avanti la legge sul testamento biologico, che ha alcuni punti positivi (fra cui il riconoscimento che alimentazione e idratazione artificiali non sono “sostegni vitali” ma terapie a tutti gli effetti, come tali rifiutabili in base all’articolo 32 della Costituzione).

Ci auguriamo che il dibattito in Aula consentirà di modificare alcune parti non condivisibili del testo: i riferimenti alla “tutela della vita” (insulso se si considera l’obiettivo della legge); alle “cure condivise” tra medico e paziente (mentre solo a quest’ultimo, o al suo “fiduciario”, dovrebbe spettare l’ultima parola); alla “deontologia professionale”, innalzata a fonte del diritto. Si tratta di formule che, se non chiarite, e ove possibile superate, possono aprire la strada a contenziosi infiniti contro le scelte libere e responsabili dei malati. Vorremmo soprattutto inserire nel testo la “sedazione continua profonda”, che in Francia ha risolto felicemente il contrasto fra chi voleva legalizzare l’eutanasia e chi vi si opponeva (lo dimostra una recente indagine di Le Monde fra i medici francesi di diverso orientamento). Si tratterebbe comunque di un notevole passo avanti, che finalmente introdurrebbe nel nostro ordinamento un istituto di cui solo l’Irlanda e l’Italia non si sono dotati. Un tema molto meno “sensibile e divisivo” rispetto alla eutanasia; ma al tempo stesso delle norme che potrebbero almeno evitare a tanti malati gravissimi o terminali sofferenze prolungate ed inutili. E potrebbero ridurre il numero dei malati costretti a cercare nel suicidio “l’uscita di sicurezza”.

Su questo drammatico tema, nel marzo del 2014, decennale del suicidio di mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, riuscii a convincere i congiunti di tre suicidi “illustri” Mario Monicelli, Lucio Magri e Carlo Lizzani – ad unirsi alla mia battaglia per l’eutanasia. Scrivemmo una lettera al Presidente della Repubblica allora in carica Giorgio Napolitano che ci rispose pubblicamente auspicando con forza che il Parlamento avviasse un dibattito “sereno e approfondito” sull’eutanasia. Sempre con i miei tre compagni di battaglia, nel febbraio dello scorso anno inviammo una lettera aperta al presidente dell’Istat, lamentando il fatto che l’Istituto, dal 2010, aveva smesso di citare, nella tabelle annuali sui suicidi, la voce “movente”, che mi aveva consentito di affermare con certezza che l’impossibilità di ricorrere alla eutanasia era la causa – o almeno una delle concause – per cui ogni anno 1.000 malati erano costretti a cercare nel suicidio una “uscita di sicurezza” e – invece di una “morte degna” – una “morte indegna” ed atroce, per loro e per i loro familiari ed amici.

Proprio in questi giorni l’Istat, accogliendo la nostra richiesta, ha reso noti i dati del triennio 2011-2013. A breve, con i congiunti di Moniceli, Magri e Lizzani – daremo alla stampa una dichiarazione di commento alla “nota informativa” dell’Istat. Con apprezzamento per aver accolto la nostra richiesta, con qualche perplessità perché mentre dai vecchi dati risultava che un suicidio su tre aveva come movente la malattia, oggi la “quota malati” sul totale dei suicidi è scesa a 1 su 5. Resta il fatto – pesante come un macigno – che in Italia ogni anno si suicidino a causa di malattie 800 malati, più di due al giorno, uno ogni 12 ore: lo stesso numero delle troppe “morti bianche” che ogni anno si verificano fra i lavoratori dei cantieri edili e delle fabbriche.

A questo dato sui suicidi di malati se ne aggiunge un altro, ricavato da molte indagini demoscopiche e in particolare da una ricerca approfondita dell’istituto Mario Negri, effettuata nel 2007, da cui risulta che ogni anno, in Italia, si verificano, nelle strutture ospedaliere pubbliche e private, ventimila casi di eutanasia clandestina. Ed è molto fragile la replica degli autori della ricerca, secondo i quali non si tratta di eutanasia ma di “desistenza terapeutica”. Si tratta, in questo caso come in altri, di non giocare sulle parole.

Concludo: mi ha commosso, questa mattina, leggere i giornali sulla vicenda di Fabo, che all’ora della uscita in edicola non era ancora morto. E mi ha fatto piacere che perfino la Rai – che da sempre cerca di stare alla larga da un tema che urta le sensibilità vaticane – abbia per una volta trovato spazio nelle edizioni principali dei Tg e dei Gr. Ancora una volta, invece, si è distinta per la sua mancanza di umana pietà la Chiesa Cattolica, che per un anno ci ha tediato con il suo inutile Giubileo straordinario, intitolato proprio alla “Misericordia”. E’ toccato a Monsignor Paglia il compito di liquidare il dramma di Fabo. Appena nominato presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Paglia aveva profetizzato cosa avverrebbe se si legalizzasse l’eutanasia: “Figli e nipoti sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi; i più giovani non potrebbero fare a meno di vedere i più anziani come oggetti da gettar via”. Ed ora, senza pietà per Fabo, parla di “pena di morte” (loro sì che se ne intendono, visto che lo Stato del Vaticano è stato l’ultimo, fra i tanti Stati in cui si articolava l’Italia, ad abolire la pena capitale. E lo ha fatto solo per l’imposizione dei piemontesi). Paglia si chiede se i cristiani preghino abbastanza per la ‘guarigione’ dei malati (nel caso di Fabo, una dichiarazione demenziale) e per la loro consolazione”. E conclude chiedendosi se in questo modo non prevalga “la cultura dello scarto”. Senza parole!