Cultura

‘Lo soffia il cielo’, il rapporto madre e figlio nella società dei consumi e delle immagini

“Abbiamo dimenticato cosa sia guardarsi, toccarsi, avere una vera vita di relazione, curarsi l’uno dell’altro. Non sorprende se stiamo morendo tutti di solitudine” (Leo Buscaglia)

Possono due solitudini divenire una compagnia? Possono due monologhi diventare un dialogo? Se lo è chiesto, rispondendosi con spunti interessanti e briosi slanci, il giovane regista Stefano Cordella, idee chiare e sguardo che supera il contingente, mixando due atti autonomi e a sé stanti per un unico personaggio del drammaturgo Massimo Sgorbani (ultimamente molto in voga come testi rappresentati) e unendoli come pezzi di puzzle a incastro o parti di un mosaico, mashuppandoli come tetris e facendo diventare l’uno la risposta dell’altro e creando questo bel, curioso e intenso, magma.

Dai testi Angelo della gravità e Le cose sottili dell’aria, Cordella, suo anche l’adattamento, la rifinitura e la ripulitura, ha estratto dal cilindro Lo soffia il cielo di modugnana ispirazione e memoria (visto allo Spazio Avirex Tertulliano di Milano), buon esperimento drammaturgico, felice intuizione che potrebbe essere ripresa a modello di lavoro sia con i classici che con i contemporanei.

Anzi, proprio perché Sgorbani è vivente (vivo e vegeto; ha assistito alla prima ed è rimasto piacevolmente colpito dall’operazione, che poteva essere rischiosa e assai scivolosa), il tentativo del regista milanese (lavora stabilmente con la compagnia Oyes dei quali abbiamo apprezzato Vania) deve essere maggiormente valorizzato.

In un anfratto di cemento, in uno degli infiniti alveari dove pullulano abbandono e infelicità, in questo salotto dove tutto sembra ruotare attorno all’unica fonte di luce (flash a scatti, a incendiare, abbagliante a colpire, a ferire, ad impallinare) reale, immaginaria e di un calore freddo, la televisione che sputa immagini a raffica e parole ormai incomprensibili. In questo, che potrebbe essere la trasposizione di un basso partenopeo in salsa contemporanea, un figlio (Francesco Errico, ben si cala in questa colla morbosa, nelle sabbie mobili paludose dell’infermità mentale e del ritardo psichico) spiega infantilmente le sue logiche, le sue dinamiche, il bullismo subito, il padre che non c’è più, l’amore per lui rimasto sempre chimera negata. Accanto a lui, non si guardano, mirano oltre, fuori, nel vuoto, fissano il niente, il futuro che non si palesa, questa madre (Cinzia Spanò, la sua voce è un corroborante salvifico, regge l’impianto con sicurezza e solidità, è fusto di esperienza, carne e cuore), stanca e sofferente, una Maria biblica che esprime prima cordoglio poi sconforto aspro, prima pietas e perdono successivamente cattiveria e acidità, prima è dimessa dopo atroce e rabbiosa.

Si fanno compagnia e si odiano. Sono l’uno il grimaldello dell’altro per restare ancorati alla vita ma anche il peso e la condanna, la sconfitta dell’esistenza fallita e misera. Le rette parallele, lo sanno tutti, non s’incontrano nemmeno all’infinito. Sembra un divano in quest’impianto cupo, buio, ovattato e pressante; a guardar bene invece sono due poltrone unite. Tratto e particolare fondamentale. Due oggetti a formarne uno solo, due persone che non avrebbero voluto/dovuto stare insieme e invece formano una famiglia. In mezzo alle due poltrone, come canale di Suez, filtra una luce divina e abbagliante, quasi la soluzione panacea a tutti i mali terreni.

Sono parole al vento, quelle del figlio, figura immateriale e irreale, e quelle della madre, disfatta e percossa dagli accadimenti che l’hanno segnata, violentata. Parlano al pulviscolo che scende nei fasci di colore che cola dal tubo catodico, sono due astronauti (il ragazzo ha una tuta da ginnastica che somiglia a quella di Neil Armstrong e soci) su un pianeta freddo e sconosciuto, allunati e allucinati nel deserto del loro mondo arido e brutale, nascosti in quel buco dove si sono barricati cercando quella pace che non conforta.

In questo vuoto tutt’attorno, in quest’illusione di celluloide, la senti palpabile la collera repressa compattata, il desiderio d’annullarsi, la mancanza di possibilità, di un domani che possa sorriderti; è tangibile e pungente l’odore acre di resa, sudore e disfatta, le frustrazioni che si sono ingigantite fino a farsi visioni polverose e allucinazioni, vite senza sorprese, vite senza regali, vite senza poesia.

“Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo)