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Islam, spieghiamo ai giornalisti come occuparsene. O faranno solo spettacolo

Dall’attacco alle Torri Gemelle alla comparsa del cosiddetto Stato Islamico, i mass media hanno fortemente contribuito ad alimentare la propaganda islamofoba nel mondo occidentale. In una società in cui la competizione prevale sulla cooperazione la predisposizione al conflitto, tende a cercare nemici. Così come fino alla caduta del muro di Berlino il nemico dell’Occidente era individuato nel comunismo, adesso il ruolo di parafulmine, dove scaricare almeno in parte la tensione sociale, è stato assegnato ai musulmani. Proprio come col comunismo all’epoca della Guerra Fredda e non solo, adesso anche i conflitti bellici hanno come nemico il cosiddetto “islam cattivo”. Conflitti che, è sempre bene ricordare, mietono una moltitudine di vittime nel cosiddetto “islam buono”. Il dovere degli organi di informazione dovrebbe servire a contrastare questa tendenza e, invece, assistiamo quotidianamente ad una narrazione superficiale in cui una categoria di persone, accomunate da una fede religiosa, viene praticamente disumanizzata.

Oggi di islam ne parla e ne scrive chiunque; spesso si tratta di giornalisti improvvisati che solo per il fatto di scriverne si qualificano come esperti. Già da qualche tempo l’Associazione Carta di Roma ha pubblicato le linee guida per l’applicazione dell’omonima Carta deontologica, allegando anche un glossario sull’Islam.

Un decalogo di estrema importanza, che non risolve del tutto il problema in essere. La dimostrazione è quanto sta accadendo recentemente in tv. In questi giorni alcune ragazze musulmane sono state contattate da alcune redazioni di noti programmi e invitate a partecipare alle trasmissioni. Ad alcune di loro è stato chiesto di indossare il burqa il tipico abito islamico usato principalmente in Afghanistan e Pakistan, seppur queste ragazze siano di nazionalità ben diversa.

Alle insistenti richieste dei co-autori del programma, alcune di loro hanno risposto in maniera negativa, non volendo apparire quali ‘fenomeni da baraccone’. Come criticarle del resto? Che vi sia in Italia lo stereotipo della donna musulmana, sottomessa e obbligata a portare il velo, è un dato di fatto. L’idea che una donna possa scegliere volontariamente di indossare un velo o un abbigliamento tale da non mettere in mostra le forme femminili, per noi italiani è difficile da concepire. Inutile dunque insistere su un argomento trito e ritrito, noi in Italia quando pensiamo alla donna musulmana, la prima cosa che ci viene in mente è proprio la sottomissione alle regole imposte dall’islam. ‘Regole’, chiariamo subito, che pochi italiani conoscono bene perché, in verità, per farlo bisognerebbe aver almeno letto e quantomeno compreso il Sacro Corano, gli hadith, la Sunna, la Sharia eccetera eccetera…

Già questo è sufficiente a generare confusione. La stessa confusione che ritroviamo quando alcuni trattano del tema dell’abbigliamento islamico femminile. Chi lo chiama burqa, chador, niqab, hijab, e di recente il burkini, nomi che si alternano da un articolo all’altro, senza conoscerne l’esatta provenienza tantomeno l’utilizzo che se ne fa nei vari paesi. Quanti sanno ad esempio che il burqa è un antico costume semitico in uso non solo presso i musulmani ma anche tra gli ebrei ortodossi, gli haredim? Quanti sanno che in Iran il velo è obbligatorio, mentre è facoltativo in altri paesi?

Diciamoci la verità: quando si parla di islam il giornalismo passa dal terreno delle analisi a quello della propaganda neocoloniale. Chiedere un dress code in tv (non di appartenenza tra l’altro), per mostrare che si è musulmani, è esattamente l’antitesi della ricerca della verità. Discutere di Corano nei talk show altro non è che voler ridicolizzare una religione. Per questo servono delle regole specifiche, per non superare quel limite in cui l’informazione diventa spettacolo.

Non è ancora ben chiaro se la troppa confusione sul tema islam, sia voluta o si tratti solo di mancanza di conoscenza (leggi ignoranza). Che in gran parte le colpe siano da imputare ai media, non vi è dubbio. A volte vengono generate analisi superficiali e frettolose, capaci di provocare nell’italiano medio idee fuorvianti, se non razziste.

C’è dunque un bisogno urgente di creare un tipo di giornalismo, svincolato dai pregiudizi, in cui i musulmani in Italia non vengano presi come fenomeni da studiare da vicino, ma come membri di una nuova comunità nazionale che sta crescendo e che sarà parte integrante del nostro paese. Le differenze con gli altri devono essere viste sempre come un valore, mai ridicolizzate e mai discriminate. Il nostro impegno deontologico è proprio quello di evitare di pubblicare notizie o mostrare realtà falsificate evitando così di creare confusioni, allarmismi e soprattutto cercando di attenuare quell’islamofobia generalizzata ancora troppo viva nel nostro paese.

“Il giornalista (art.2 della legge n. 69 del 3 febbraio 1963) ha il dovere fondamentale di rispettare la persona, la sua dignità e il suo diritto alla riservatezza e non discrimina mai nessuno per la sua razza, religione, sesso, condizioni fisiche o mentali, opinioni politiche” recita il Testo unico dei doveri del giornalista. Ma in quanti seguono queste regole? Benché sia di fondamentale importanza la Carta di Roma, oggi serve più che mai un codice deontologico in cui vengano stabilite le linee guida da seguire da parte dei giornalisti sul tema islam. E’ una sfida che l’informazione e le autorità competenti devono affrontare con serietà, cosa che, fino ad ora, non sempre c’è stata.