Scuola

Informatica a scuola, di cosa parliamo quando parliamo di pensiero computazionale

Donald Knuth, scienziato conosciutissimo sia dai matematici che dagli informatici, nel 1974 ha scritto (p.327): “In realtà una persona non ha davvero capito qualcosa fino a che non è in grado di insegnarla a un computer”.

George Forsythe, analista numerico ed uno dei padri della formazione universitaria in informatica, nel 1968 ha scritto (p.456): “Le acquisizioni più valide nell’educazione scientifica e tecnologica sono quegli strumenti mentali di tipo generale che rimangono utili per tutta la vita. Ritengo che il linguaggio naturale e la matematica siano i due strumenti più importanti in questo senso, e l’informatica sia il terzo“.

Linguaggio naturale e matematica sono, giustamente, insegnati fin dal primo anno delle elementari, perché costituiscono delle abilità “trasversali“, cioè utili e applicate in qualunque altra materia. Per riuscire bene in storia, geografia, scienze, arte, il linguaggio naturale è indispensabile, altrimenti non riusciremmo a spiegare e descrivere i soggetti che stiamo trattando, ed è altrettanto necessaria la matematica, pena l’impossibilità di confrontare quantità, stabilire relazioni numeriche, ordinare valori.

Ma non per questo si insegnano il “pensiero linguistico” o il “pensiero matematico” come disciplina ortogonale a tutte le scienze. Si insegnano, giustamente, “italiano” e “matematica”, e poi le competenze linguistiche e matematiche vengono naturalmente travasate e messe in gioco quando si parla – ad esempio – di arte o di storia.

Perché allora parliamo di “pensiero computazionale” nella scuola? Per motivi di spazio ne do qui una prima spiegazione in sintesi, rimandando una riflessione più articolata al post che sarà disponibile su questo blog interdisciplinare dopo la chiusura dei commenti per questo articolo.

In prima istanza, è dovuto al fatto che se si usa il termine informatica, si possono intendere concetti che vanno dalla “teoria della complessità computazionale” a “il formato del file system sulla pennetta Usb”. Questa è una maledizione da cui forse solo l’informatica è afflitta. Nessuno confonde più ormai il medico con l’infermiere, l’ingegnere con il meccanico, tutti mestieri nobilissimi e ugualmente rispettabili, ma che hanno ovviamente diverse aree di competenza.

Quindi, quando parliamo di pensiero computazionale, vogliamo esplicitamente parlare degli aspetti culturali e scientifici dell’informatica, a prescindere da qualunque aspetto strumentale o tecnologico.

In secondo luogo, riteniamo che l’informatica abbia una caratteristica, nuova e sua specifica, che la rende ancora più interessante in un’ottica interdisciplinare rispetto alla lingua naturale e alla matematica.

La capacità, unica dell’informatica, di concretizzare mondi virtuali, grazie alle sue capacità apparentemente illimitate di elaborare simboli di qualunque tipo ed in qualunque modo, costituisce la sua forza in un contesto educativo. Perché niente è utile per apprendere un concetto come farne esperienza concreta. E con l’informatica questo è possibile, in qualunque disciplina.

Questo è il motivo per cui parliamo di pensiero computazionale nella scuola. Ma non chiediamo che sia questo il nome della materia, non ha senso. Non chiediamo che in tutte le materie ci sia “il momento del coding“, non ha senso. Bisogna insegnare “informatica”, così come si insegna “italiano” e “matematica”. E poi, se questo viene fatto in modo adeguato, da docenti che sono stati adeguatamente preparati a questo scopo, così come lo sono quelli che insegnano le varie materie nelle nostre scuole, allora i benefici verranno.

Il nostro paese, in cui già 25.000 insegnanti hanno portato più di un milione di studenti a svolgere quasi 10 ore a testa di informatica, ha dimostrato di essere pronto e interessato a seguire questa strada. Non perdiamo quest’occasione.