Cultura

‘Dignità Autonome di Prostituzione’, la trasgressione in scena a Firenze

Come in un girone infernale. L’intento sarebbe stato quello del “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”. La regola, di chi sta sul palco, è vendersi al miglior offerente, il dogma, per chi sta sotto, è quello di accalappiarsi i servigi (dialettici, ovviamente) degli attori/performer. Aria sognante e fumosa da bordello misto al Circo Barnum con sprazzi del deludente XXX della Fura dels Baus questa Dignità Autonome di Prostituzione, format che ha alle spalle dieci anni di tour italiano e che si trascina dietro molte, tante, troppe, aspettative.

Tutto già visto, tutto già sentito, quell’atmosfera rarefatta e artificiale di boudoir postribolato dove vincono il rosso e il nero, i trucchi sbafati e pesanti, le boccone larghe, i sorrisi pseudoemancipati, la “merce” in bella mostra. Le lucine e i teli da corrida porpora sangue, le fiammelle e le spose, il cerone mortuario e i papillon sgargianti, gli uomini incappucciati tipo Guantanamo o come i prigionieri dell’Isis, veli e trine, giarrettiere e fantasmi, le immancabili perle vintage-aristocratico decaduto, pellicce e parrucche, tacchi vertiginosi e calze a rete inevitabilmente smagliate.

Una trentina di figuranti per intrattenere e spiegare un grande Mercante in Fiera dove il pubblico può “comprare” il tempo dei “prostituti”, anche se la platea rimane una pedina che viene mossa e direzionata da consolle e microfoni che consigliano amabilmente, spingono delicatamente, impongono dolcemente. Il kolossal Dignità è l’opposto della mercificazione dei corpi che si vendono nelle case chiuse o sui marciapiedi, qui il rapporto non è uno ad uno, non esiste privacy, tutto è esposto, fuori, pubblico. Manca l’intimo, deficita dello squallore, difetta di miseria.

A piccoli gruppi, facendo finta di contrattare un prezzo simbolico (all’entrata vengono dati per ogni biglietto cinque “dollarini”; ah, i prezzi: 30 euro l’intero, 18 il ridotto!), seguendo per corridoi e anfratti il nostro Caronte e imbonitore che ci conduce in una saletta dove ci verranno raccontate storie peccaminose da lunghe ciglia sbattenti e voci squittenti.

Sembra più una gita scolastica, un pic nic in montagna, una scampagnata o meglio un viaggio in crociera per anziani (viene in mente Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace) ai quali viene propinato di tutto cercando di solleticarli, vivacizzarli, tenerli su, spostandoli da una parte all’altra, cercando di elettrizzarli, eccitarli, portarli a fare una qualsiasi attività per riempire il tempo. O una festa in casa delle medie (qui in sottofondo ci starebbe benissimo Tapparella di Elio e le Storie Tese) con balli di gruppo e i timidi pieni di vergogna in fondo alla sala. E’ un Colosseo contemporaneo dal sapore retrò al quale si affacciano le fiere (qui depotenziate e ammansite, quindi non pericolose e di conseguenza meno affascinanti) vagamente tristi dai ruggiti sdentati, strette nei corpetti, fasciate di stivali e strizzate dai boa di struzzo.

Danzatori impertinenti per un musical, uno show in piena regola che vuol prendere le mosse e imitare il celebre Moulin Rouge, con il suo Cicerone-Luciano Melchionna, regista e ideatore e presentatore (chiamato dagli altri attori in scena “papi” ricordando l’autoproclamatosi “miglior presidente del consiglio degli ultimi 150 anni della Storia italiana”), di lustrini sgasati e paillettes opache, di stornelli da osteria romana trasteverina polverosa, che vorrebbero prendere il la da Claudio Villa, Lando Fiorini o da Gabriella Ferri o, pensando all’oggi, alla Mannarino, racconti di femminielli che hanno solo la facciata dell’essere accostabili a Pier Vittorio Tondelli o Annibale Ruccello, lontani dal fango pasoliniano.

I bassifondi rimangono sulla carta, l’eccessivo, il prorompente e il trasgressivo restano nei titoli di testa e mal si conciliano e peggio si incrociano con questo baraccone di caos e trenini, di gente spaesata come in un Ultimo dell’Anno qualsiasi, di file da sagra senza coinvolgimento né partecipazione. Va in scena la parte più esteriore e più facile dell’aggettivo “teatrale” e non bastano costumi e trucchi per fare teatro; questo Dignità è la patina più scontata e superficiale, la crosta e la schiuma del palcoscenico.

Se l’idea di fondo, sacrosanta e meritoria e provocatoria, era quella di paragonare l’attore alla prostituta, i due mestieri più antichi del mondo, il suo essere alla mercé, l’essere “comprato”, l’aspirazione è rimasta tra le righe e nell’assunto iniziale per poi essere soverchiato e rovesciato, ribaltato e schiacciato dalla più semplice prurigine.