Donne

Facebook e la cultura dello stupro sul web, a nessuno interessa delle vittime

Toh! Guarda non mi dire….la cultura dello stupro circola (anche) sul web. Benvenuti nel club, sempre più allargato per fortuna, di donne e uomini impegnati contro la cultura del femminicidio che non è solo quella del maltrattamento nelle relazioni di intimità, delle molestie o dello stupro. Rabbia e disgusto dilagano da qualche ora sul web contro quei gruppi chiusi di Facebook che usano foto rubate da profili di donne per vomitarci contro odio e disprezzo, volgarità e fantasie di stupro. Molte testate ne hanno parlato. Enrico Mentana si è indignato su Fb con un commento che mostra smagliature quando pone l’accento sulle “innocentissime” foto delle donne vittime di quella gogna violenta.

La violenza è violenza e prescinde dal comportamento della vittima o di come sia ritratta in una foto. Anche se si tratta di foto osè, la violenza di quelle parole non è giustificabile. Tiziana Cantone si è suicidata per la violenza della rete. Perché quell’odio? Bella domanda alla quale si può trovare risposta sfogliando libri, leggendo, immunizzandoci contro il sessismo perché prima che la violenza divenga pratica, c’è una lunga immersione in un brodo culturale che macera coscienze. E devo dire che sono in disaccordo con Eretica quando si focalizza sul mancato consenso al “desiderio altrui”. I commenti non parlano il linguaggio del desiderio ma della violenza e del disprezzo.

Avviene così che ci siano i casi  che finiscono in cronaca, ma anche violenze quotidiane che si consumano tra indifferenza e assenza di empatia. Lascia senza parole che si insultino persino le donne vittime di violenza, ma è sconfortante leggere che c’è chi non prova nessuna empatia per loro. Giorni fa, un uomo commentava con un “c’è ben altro!” in calce alla notizia della commemorazione delle “donne di conforto” nel Giappone della Seconda Guerra Mondiale. Nell’articolo de Il Corriere della Sera si racconta delle loro vite di sopravvissute a stupri di gruppo subiti per anni e all’imperdonabile oblio che ha avvolto quel crimine. Ho pensato a quanta esposizione a un lungo processo di oggettivazione sessuale delle donne, porta uomini (e le stesse donne) a non provare empatia per le vittime e a sentirsi in dovere di minimizzare o addirittura aggredire e colpevolizzare i bersagli di quella violenza. L’oggettivazione delle donne conduce a non percepirle come persone incarnate che soffrono, si feriscono, muoiono, pensano, hanno sogni e progetti. In una parola: le si deumanizza.

Si parla di prevenzione ma la prevenzione parte da noi stessi e questi argomenti continuano a essere considerati di nicchia o materia di quella “riserva indiana” chiusa nei femminismi come se l’argomento fosse a parte, rispetto ai temi centrali di cui si dovrebbe occupare una società con l’ambizione di essere civile. Ben venga che si sia scomodato, finalmente ed era ora, il direttore di una testata, ma i gruppi chiusi rimangono online. Facebook è solito censurare l’immagine di una donna che allatta o la celebre foto-icona della bambina vietnamita nuda che corre sotto i bombardamenti americani (perché l’algoritmo censura il capezzolo), ma non quella di una donna carponi come fosse un tavolino su cui gli uomini appoggiano i piedi.

In quei gruppi chiusi a coltivar violenza ci sono uomini che dopo aver umiliato le donne, perfette sconosciute o ex (e via col revenge porn e lo slut shaming) con un giro di mouse pubblicano, nei profili personali, commenti contro il femminicidio e foto di famiglia o anche primi piani che li ritraggono intenti a compiere gesti filantropici. Altri gruppi, lo ha denunciato in un post Selvaggia Lucarelli,  erano amministrati da donne, giovanissime e anche signore di mezza età che erano solite mettere alla gogna sconosciute per poi preoccuparsi nei profili privati, dell’incolumità delle loro figlie. Persone comuni, forse nostri vicini di casa.

Ma sono solo questi gruppi chiusi il problema? Negli ultimi 25 anni nel nostro Paese il linguaggio sessista (e razzista e omofobo) ossessivamente fallocratico e violento, è stato sdoganato senza alcuna remora anzi con l’arroganza di rivendicare libertà di espressione e l’abbattimento di ipocrisie. Parole violente sono state scagliate come pietre con particolare accanimento contro le donne  in nome della provocazione o dell’ironia.

La cultura delle immagini poi, ha amplificato il problema. Lorella Zanardo denuncia con impegno la violenza della oggetivazione delle donne sui media e molte attiviste femministe segnalano da tempo le pubblicità violente che vengono affisse sui muri delle nostre città. Si vende il corpo delle donne prima ancora del prodotto (jeans, borse ecc) e insieme si invita alla violenza e allo stupro anche apertamente per imprimere con più forza il messaggio. Un altro abbondante capitolo sarebbe da riservare alle ingiurie sessiste rivolte alle donne nel mondo della politica e ai giornalisti che veicolano senza alcuna critica quei contenuti o addirittura li fanno propri. Tra gli innumerevoli esempi ve ne propongo uno recente: il deputato europeo e leader della Lega Matteo Salvini che tra un tweet contro la violenza sulle donne e uno a favore della castrazione chimica per gli autori di stupro (soprattutto se immigrati), la scorsa estate ha degradato Laura Boldrini, presidente della Camera, lasciando che venisse portata sul palco, prima del comizio, “la sua sosia”: una bambola gonfiabile. Tutto è avvenuto tra le risate di uomini e donne che lo applaudivano.

In forme diverse e con un linguaggio più o meno violento, più subdolo o più esplicito, è sempre la stessa melma e ci siamo dentro tutti e tutte quindi non accontentiamoci di condannare questa melma nei gruppi chiusi di Facebook. Circola ovunque, tra noi.