Società

Gioco d’azzardo: la storia di Daniel, un giocatore che ha vinto

Ricevo questa testimonianza e volentieri pubblico.

“Mi chiamo Daniel B. ho 41 anni e per 24 anni sono stato una di quelle persone che probabilmente avrete visto di spalle dentro una tabaccheria o un bar, un’edicola, di cui, legittimamente, avrete pensato “poveretto“. Una di quelle persone, tra tante, tra troppe, che hanno buttato una vita nelle slot, nei gratta e vinci, nelle scommesse online, nel 10 e lotto….

Non è un caso che, sopratutto nei luoghi pubblici, le slot siano messe dov’è difficile vederle. Perché il gestore del locale sa benissimo che non è una pratica edificante pagare l’affitto con la busta paga di un giocatore, e il giocatore pretende di non essere visto, e sopratutto pretende di essere solo.

Un giocatore patologico costruisce intorno a sé il vuoto, dove nessuno deve entrare, dove i problemi non esistono, dove perdere tutto crea la vana speranza di rivincere tutto. Ma io ho imparato che un giocatore patologico è semplicemente un masochista che magari inizia per non riconoscere colpe altrui (una mamma troppo amorevole, un padre assente, un’infanzia negata o prolungata, motivi che non sgravano la responsabilità, ma che vanno considerati) e che in un attimo entra in un vortice di sensi di colpa, che paradossalmente lo porta a giocare per punirsi.

Fateci caso, un giocatore non sorride mai, neanche quando vince perché il pensiero torna al motivo che lo ha portato a giocare, e non sarà di certo il bonus di una slot a cambiare le cose. Un giocatore non sorride mai, questo penso sia veramente lo “slogan”. Quando un giocatore patologico esce dal suo percorso di distruzione, è quasi sempre troppo tardi per avere aiuto, tardi per avere l’affetto che si è giocato. Io, per esempio, sono 5 anni che non vedo mio figlio, che lo spio, che lo vedo crescere senza di me.

È quello che devo pagare per il male che ho fatto, non volendo, a me stesso e a chi mi era vicino. Ma sono convinto che all’interno di una vita esistano tante vite da vivere: non saremo perdonati per la vita che abbiamo distrutto ma abbiamo il dovere di mettere quello che è stato nel nostro passato, farci i conti, combatterlo, e vincere. Ci sono tanti modi per farlo, a me è stato di grande aiuto entrare nel modulo Orthos, un programma residenziale di 21 giorni che ovviamente non sono bastati a risolvere, ma mi hanno fatto vedere il problema con occhi diversi.

In una terapia di gruppo, dopo anni di gioco/solitudine, il gioco è fonte di scambio. Uno scambio duro, triste, potente ma sincero, tra persone che hanno deciso di cambiare, in un ambiente che non ti giudica per quello che hai fatto. Le storie sono simili. Non cancellano i danni fatti, ma costituiscono una punto di partenza, perché si crea quella solidarietà che soltanto chi ha perso una guerra conosce, trovando compagni pronti a ricostruire.

Io ho affrontato i miei problemi, ho accusato me stesso, ho accusato chi mi ha fatto male, ho pianto per il male che ho fatto. Mi sono reso vulnerabile per rendermi sincero come forse mai lo sono stato. Un giocatore è per natura bugiardo e le bugie più importanti le dice a se stesso.

Sa che non vincerà, ma si dice che vincerà. Sa che sta distruggendo, ma è convinto che sistemerà tutto. In quei 21 giorni fai i conti con la tua sincerità. Su quanto ti costa. Su come non la sai più riconoscere. Su come sia la chiave piccola di una porta enorme. Il gioco, in un giocatore patologico sarà sempre una componente e il segreto è ricordare sempre cosa ci ha causato. Il mio rischio oggi è riconquistare mio figlio, questo sì che è una vincita da rincorrere.

Oggi so di essere una persona migliore, che continua a sorridere poco, ma che ha smesso di piangere per ciò che ha commesso. Oggi piango gli affetti che ho perso, ma ho preso la mia vita e le ho detto rimbocchiamoci le maniche, dobbiamo provarci. Alla mia età è difficile fare progetti, ma qualsiasi età è adatta per migliorare dentro.

I giocatori sono generosi, e io da giocatore quale sarò sempre, cerco di rendermi utile aiutando all’interno dei gruppi che continuano a svolgersi. Vedere persone tornare a vivere, famiglie ricomporsi, figli tornare al centro di tutto, rende anche a chi ha perso una guerra, il mondo bello.

Chiedete aiuto. Prima lo fate e meno avrete da recuperare e da rimpiangere. Informatevi, ai sert, da uno psicoterapeuta, da chiunque possa darvi indicazioni utili. Mettetevi in gioco per qualcosa che vi faccia stare bene. Abbiamo questa vita, e fino all’ultimo giorno siamo in tempo per raddrizzarla”.