Società

Nonprofit, lavorare nell’emergenza umanitaria per restituire il futuro

“Li chiamano profughi, noi li chiamiamo per nome” (Intersos)

La recente intervista a Konstantinos Moschochorits di Intersos (pubblicata il 16.12.2016 su Blog4Change, rubrica I Protagonisti delle Ong) ci fa entrare nel “lavoro sul campo” dell’emergenza umanitaria attraverso la storia di uno dei suoi principali attori. “Kostas”, per come lo conosco, è una persona gentile dallo stile asciutto, con i tratti sbrigativi di chi è abituato a risolvere in fretta questione gravi e non può perdersi in chiacchere o problemi marginali. Tra i nostri docenti uno di quelli con maggiore esperienza sul campo e storie da raccontare.

Prima di diventare direttore generale di Msf e ora di Intersos, conseguì la laurea in Ingegneria Elettrica a Patrasso negli anni 90 e aveva lavorato come ingegnere fino al 1995. Fino a che non sente arrivare “il momento di dare un significato diverso alla mia vita e alla mia carriera” e inizia a dedicarsi al supporto umanitario, prima come capocantiere in Grecia per Msf, poi in missione in Armenia, poi operativo in tutti i continenti. Per arrivare oggi a Segretario Generale a Intersos – la principale organizzazione per l’emergenza umanitaria in Italia -, meno conosciuta al grande pubblico ma con assai più storia e più grande di Emergency.

Ci sono alcuni passaggi dell’intervista che vorrei segnalare ai lettori, per comprendere meglio “dal di dentro” il lavoro. Il primo riguarda non solo l’aiuto materiale ma quello psicologico-sociale: “(I rifugiati) sono persone in fuga da situazioni impossibili, che hanno perso parenti e amici, beni materiali, e, soprattutto la possibilità di sognare un futuro. La prima cosa da fare per loro è proprio restituirgli dignità e speranza”. Per questo “il ruolo di un’Ong umanitaria non è solo quello di alleviare le sofferenze, portando sia soccorso diretto tramite alimenti e generi di prima necessità, ma anche di restituire la dignità alle persone”.

Il tema dell’umanità, nell’era dei robot, resiste prepotentemente, e a un certo punto l’intervistatore fa una domanda impegnativa e inattesa: “Che cosa significa essere uomini nel XXI secolo?” Significa che siamo tutti uguali, tutti vulnerabili. Che possiamo vedere, percepire, comprendere tutto ciò che accade a noi e ai nostri simili e che non possiamo chiudere gli occhi” risponde Kostas.

Recentemente il governo Italiano (Miur) ci ha invitato come scuola a offrire un contributo sull’innovazione dei programmi scolastici: credo che “non chiudere gli occhi” potrebbe essere non tanto uno slogan di una campagna, ma il concetto al centro dello spirito della scuola in Europa, vista la grave miopia umana e strategica dei suoi governanti. Un’Europa che fino a pochi anni fa non esitavo a definire con orgoglio “sociale”, ha creato un accordo con la Turchia dove c’è la volontà politica di subappaltare il problema dei rifugiati e di creare muri, di spostare il problema invece che risolverlo. Di chiudere gli occhi e tenerlo lontano, appunto.

Nella testimonianza di Kostas, come in quella di tutti coloro che lavorano nel settore emerge, oltre alla necessaria professionalità e “diligenza operativa”, la necessaria resistenza alla frustrazione, alla gestione dell’imprevedibile, con anche il ritirarsi quando serve: come quando ti arrivano nel campo guerriglieri armati per requisire tutto minacciando noi e la vita delle stesse persone che stiamo cercando di aiutare… “Non si può piagnucolare, bisogna rialzarsi e ripartire”.

In un recente incontro, Tommaso Urbani, un nostro ex-studente che lavora ora come logista in Sud Sudan nell’emergenza umanitaria, ha raccontato come per far partire un cargo siano necessarie mille autorizzazioni, a volte trattare con le tribù locali, sperare in condizioni meteo non ostative, e alla fine veder saltare tutto a causa… Delle mucche che hanno invaso la pista.

Nelle mie parole direi che la forza è data dal sogno che ci fa resistere alla paura e agli artigli della realtà. Kostas trova un’espressione molto bella quando dice, che, semplicemente “è la realtà stessa che ti spinge avanti“. Se c’è una espressione che caratterizza i professionisti del nonprofit rispetto ai colleghi delle aziende è quella di Terenzio: “Homo Sum. Nihil humani a me alienum puto”. Per noi la vita e la “carriera” non sono solo “nostre”: sono anche, e soprattutto, al servizio di chi ne ha più bisogno. E’ insieme a loro che sogniamo il futuro, perché un futuro deve esserci, per tutti.