Politica

Roma, Virginia Raggi prende in giro Grillo

La resistenza passiva messa in atto da Virginia Raggi allo scopo di non ottemperare agli accordi sugli organigrammi stipulati nei giorni scorsi con Beppe Grillo, a fronte della garanzia di non essere defenestrata dalla carica di sindaco capitolino, assume aspetti – al tempo stesso – patetici e infantili.

Ma prendersela con questa secondaria figurina del generone romano, elevata al ruolo di Maria Redentrice della città corrotta e ingovernabile attraverso procedure del tutto casuali, è ormai un esercizio francamente inutile. Nell’attesa che la fanciulla smarrita scompaia, facendo ritorno in un mondo popolato da elfi e puffi blu, non da capitani Uncino alla Marra o streghe che ti offrono mele avvelenate tipo la Muraro.

Intanto il mondo reale continua a presentare i suoi conti impietosi. Tuttavia, contrariamente a quanto solitamente scriviamo noi che non siamo pregiudizialmente ostili al Movimento 5 Stelle, onestà vorrebbe che tali conti non andassero indirizzati solo all’inesperienza o all’altrui protervia. E neppure – come ancora ieri mi diceva un amico pentastellato di fede ortodossa – “la congiura mediatica che parla di Roma e non di Milano”. A cui ho risposto con una certa brutalità: “Non vi era stata data fiducia perché entraste in questa gara tra chi spala più m.”.

Tale conto va indirizzato a chi pretende di guidare strategicamente il Movimento, di cui detiene il controllo societario: il team composto da Grillo e staff, ossia chi ha ereditato il patrimonio di indignazione nazionale, effetto dell’omonimo fenomeno mondiale, e continua a tenersi ben stretto il giocattolo per paura che qualcuno glielo porti via.

Così facendo arreca danni inenarrabili alla sua creatura e – soprattutto – concorre a tenere bloccato il quadro politico complessivo, non permettendo soluzioni di ricambio. Difatti è forte il sospetto che la pasticciata vicenda Raggi segni la fine della spinta propulsiva pentastellare. Ossia, la capacità di assommare voto d’opinione allo zoccolo duro costituito dall’adesione d’appartenenza; indubbiamente inscanfibile come tutte le fedi settarie, quanto non in grado – da sola – di superare elettoralmente la soglia di una consistente minoranza.

Ma mentre gli adepti e i tifosi sbraitano contro chi osa criticare i dioscuri della loro fede, la gente che si aspettava qualcosa di più della messa in scena da commedia dell’arte permanente, inizia a prendere le distanze. Non si rivolgerà a un Pd in stato di decomposizione, non aprirà un credito al Renzismo smascherato, non si convertirà a una ForzaLega senza Berlusconi? Beh, andrà a ingrossare il vasto bacino iper-deluso del non-voto. Togliendo risorse all’ipotesi di rigenerazione della politica e del personale dedicato.

Ormai ho capito che ragionamenti di questo tipo fanno imbufalire i credenti e non producono altro che insulti al blogger canuto; così come la sua scrittura, a cui gli amici (magari romanzieri di successo) consiglierebbero lessico e sintassi più pop.

Eppure resto dell’avviso: da un lato il discorso pubblico risente di questa banalizzazione che lo rende insignificante in quanto si studia sempre meno; e perché i soliti paternalisti demagoghi certificano l’inutilità dell’impegno faticoso. Dall’altro è ben difficile sperare nell’evoluzione civile delle nuove leve a 5 Stelle, sull’attenti davanti all’imperscrutabile “diritto di nomina” esercitato dai loro capi. Nei cui confronti mi viene rimproverata un’ostilità pregiudiziale. Ma così non è: ricordo Grillo ragazzetto e la sua cultura da bar sport che non si è modificata in tutti questi anni; ho lavorato nell’ambiente milanese della consulenza, scoprendone l’inemendabile vocazione a infiocchettare banalità e poi passare alla cassa. Sinergici cinismi che si fanno menare per il naso da una ragazza romana.

Mentre cresce il bisogno di rivolta. “Mi rivolto, dunque siamo”, diceva Camus.