Mondo

Bataclan, un anno dopo: la democrazia è mortificata dall’esigenza di sicurezza. E dalla grande collera per il diverso

Siamo stati tutti je suis Paris: la formula magica, quell’identità diffusa, quella difesa strenua della libertà d’espressione, della difesa dei valori “occidentali”, della rivendicazione egalitaria contro il sangue dell'Isis. Invece, da quel venerdì 13 novembre 2015 il mondo è cambiato in peggio. Con l’alibi della sicurezza e della prevenzione, le nostre libertà sono state ridotte, sistematicamente, anche nelle piccole cose quotidiane. Il Grande Fratello è sempre più realtà, non solo virtuale. E la politica asseconda questa deriva. Scossa dai nazionalismi e dalle spinte cosiddette “identitarie”

Purtroppo tocca essere banali, ma almeno chiari, fin dall’incipit: riapre il Bataclan di Parigi in boulevard Voltaire. Il celebre locale dove un commando di terroristi islamici ha ucciso 93 persone, in gran parte giovani e parecchi di essi stranieri, che stavano assistendo al concerto degli Eagles of Death Metal, diventato il simbolo del maledetto venerdì 13 novembre 2015. E’ dunque il primo anniversario di quel fatale appuntamento con l’orrore targato Isis: in tutto questo tempo, siamo stati immersi tra i fatti e il “dopo”. Tra la minuziosa ricostruzione dei tragici avvenimenti e le accurate analisi sul fenomeno della jihad e sulla diffusione della sua furiosa ideologia contro i “crociati” occidentali. In realtà, quest’offensiva è mirata quasi sempre contro i cittadini europei. E questo ci dovrebbe far riflettere: il burattinaio che manovra i fili del terrorismo vuole disintegrare l’Europa unita, renderla più debole, quindi più inoffensiva. E perciò arrendevole.

Quanto alle indagini del “dopo” 13 novembre, sono emersi pasticci, sottovalutazioni delle minacce, conflitti di competenze, gelosie e rivalità tra servizi, scarsa efficacia dell’intelligence nel coordinarsi con i colleghi belgi; e ancora: falle investigative, persino stranezze come l’assalto del 18 novembre a Saint-Denis, quando viene individuato il capo dei commandos in un appartamento e invece di catturarlo vivo, lo si elimina…In certi momenti critici, il caos regnava, e proprio in questi giorni alcune approfondite inchieste televisive hanno decrittato clinicamente contraddizioni e svelato l’impreparazione della macchina di Stato: era pronto ad affrontare gli avvenimenti, nonostante Charlie Hebdo e tutta una serie di indizi che se fossero stati valutati con maggiore perspicacia forse avrebbero potuto portare all’individuazione delle cellule terroristiche? Persino l’intransigente François Molins, il procuratore capo di Parigi, ha ammesso: “Ci sono stati degli errori”.

Ma l’anniversario del 13 novembre va oltre il rituale celebrativo, e la scontata melassa delle celebrazioni. In questi lunghissimi, intensi, drammatici 365 giorni è successo di tutto, e di più: una rivoluzione copernicana della politica, della società, dell’economia ha stravolto il mondo. Brexit. La nuova Guerra Fredda. La Nato schierata ai confini con la Russia. Putin che foraggia nazionalisti e populisti. Il Cremlino combutta con l’autocratico Sultano Erdogan: affinità elettive, nel senso dell’autoritarismo. Da noi, il referenzum… Abbiamo cambiato modo di pensare, abbiamo progressivamente mutato le nostre abitudini. Ci stanno limando diritti e libertà. I nuovi disagi, le nuove povertà, le nuovissime emarginazioni, sono più che sintomi, sono diventati malattia: vogliamo guarire, per questo pretendiamo cure immediate. Nell’inconscio collettivo, ormai, i meccanismi emotivi di fronte alle minacce del terrorismo (della disoccupazione, delle tasse che ammazzano) hanno finito per coagularsi in una Grande Collera, che è un potente motore d’azione e soprattutto reazione. Dirigiamo il nostro odio, le nostre ataviche diffidenze, contro i comportamenti che riteniamo “diversi”, “estranei”, perciò pericolosi, quindi “nemici”. Ostili. Creiamo il mostro, per combatterlo: si chiama globalizzazione. Ma anche: radicalizzazione. E, last but not least, il detestato politically correct che fa imbufalire i campioni delle destre.

Vogliamo tirar su muri, chiudere ponti. I predicatori dell’odio parlano di migranti e li legano al terrorismo, i commandos islamici “potrebbero sfruttare i flussi migratori”, hanno detto ad una riunione dei ministri degli Interni dell’Unione Europea, e chi ha lanciato quest’appello? I rappresentanti di Austria ed Italia…gli estremismi vanno a nozze, contagiano. Il vecchiume reazionario alza la testa: basta cliccare Facebook. Incalza un rinnovato fascismo, prospera nell’era web, sfrutta la Rete senza controllo: raccatta il malcontento, raggruppa gli esclusi della new economy, arruola disoccupati e pensionati allo stremo, si rivolge ai dimenticati, agli invisibili. Promette. Certo, non tutti sono così. E non tutti cascano nella trappola delle promesse impossibili: che seducono chi non ha adeguati strumenti culturali per decifrare mistificazioni e bugie. Però gli Incolleriti stanno aumentando: il sistema democratico è sempre più in affanno, quanta fatica costa tenerlo in piedi. Il malessere è diffuso, la fiducia verso le istituzioni e i partiti tradizionali si sgretola. Nelle crepe di questi deperiti edifici s’insinua la propaganda dell’antistato, il virus dell’antipolitica.

Per riassumere con una sorta di slogan – o di titolo, fate voi – si è cominciato col Bataclan e si è finito con Trump. Non è una semplice coincidenza se una lunga e sottile linea rossa di sangue e di sgomento unisce gli attacchi terroristici parigini e la sorprendente quanto sconcertante vittoria del politicamente scorrettissimo tycoon alle elezioni presidenziali per la Casa Bianca. L’analisi politica, scrive il saggista americano Paul Berman, funziona su un principio unico: quello dell’analogia storica. Ora, “nulla nella storia americana è analoga al successo di Trump”. Mentre nella storia del terrorismo, l’incubo Bataclan è ricorrente. E’ uno strumento per accelerare lo sfascio. Purtroppo, la civiltà delle parole affumica la cronaca. Scorro i titoli dei giornali: la retorica della memoria breve è in grande spolvero. Un diluvio di frasi fatte. Le analisi sulle conseguenze politiche, sociali, psicologiche dei dopo attentati si sprecano: uno scialo. Quasi sempre condivisibili, troppo spesso inascoltate. In mezzo a questo tornante storico, en passant, c’è pure stata la macelleria nizzarda del 14 luglio, sulla Promenade des Anglais, ad acuire tensioni, paure, ad alimentare odio etnico e religioso, a sovvertire l’opinione pubblica.

Ma Parigi, per fortuna, non intende cascare nella trappola della demagogia o nel vortice del populismo. La capitale francese non vuole più apparire come vittima. Vuole ritornare a vivere. A convivere. E provare a cambiare, per migliorare senza il ricatto del terrore e quello, più subdolo, della “sicurezza”, in nome della quale tutti i cittadini francesi dovranno essere schedati biometricamente (decreto governativo del 30 ottobre). Il Grande Fratello inquieta l’opinione pubblica. La privacy soccombe. Un terzo dei francesi vorrebbe un sistema politico alternativo, il 40 per cento vuole più democrazia e meno tecnocrazia. Il 20 per cento auspica un regime totalitario, per la gioia dei Le Pen (indagine Ipsos-Sopra Steria, Institut Montaigne, Sciences Po e Le Monde, 21-25 ottobre, condotta tramite Internet). Poiché l’immaginazione è fonte di speranze (l’eredità del Sessantotto è anche, purtroppo, foriera di illusioni), ci si consola dicendo che alla faccia del Califfo, si aprono i battenti del Bataclan. Tradotto: la musica batte la jihad. Che non è semplicemente un modo di dire. Ma un piccolo, seppure grandissimo, simbolico evento. Reso più struggente dalla colonna sonora di un ispirato Sting, il quale aveva già calcato quel palcoscenico, quando chi affollava la sala mai avrebbe immaginato di diventare un bersaglio, di morire senza capire perché.

In soldoni, il Bataclan è stato un punto d’arrivo, e un punto di non ritorno. Che si è spalmato in un lungo, interminabile, tremendo anno. Tant’è che sembra sia trascorsa un’intera vita da allora. Dalla notte insanguinata di Parigi, che già aveva subìto un colpo mortale undici mesi prima la strage di Charlie Hebdo e dell’ipermercato ebraico. Vi ricordate: eravamo tutti je suis Charlie. Siamo stati tutti je suis Paris. La formula magica, ci pareva quel je suis, quell’identità diffusa, quella difesa strenua della libertà d’espressione, della difesa dei valori “occidentali”, della rivendicazione egalitaria. Invece. Invece, da quel maledetto venerdì 13 novembre 2015, infatti, il mondo è cambiato in peggio. Con l’alibi – giustificato dalla minaccia, ma pur sempre un alibi – della sicurezza e della prevenzione, le nostre libertà sono state ridotte, sistematicamente, anche nelle piccole cose quotidiane.

Il Grande Fratello è sempre più realtà, non solo virtuale. E la politica asseconda questa deriva. Scossa brutalmente dai nazionalismi e dalle spinte cosiddette “identitarie” (un pretesto) l’Europa si scopre litigiosa, i Paesi che la compongono agiscono come i separati in casa, le velleità egemonicheGermania, Francia, adesso persino la Polonia – condizionano i rapporti tra i Paesi membri, la burocrazia europea contribuisce ad alimentare i dissidi e la ribellione dell’ordinary people, della gente comune avvelenata dalla crisi, incazzata dalla pretese fiscali, obnubilata dalla propaganda che dirotta il malcontento verso le minoranze più indifese, verso chi scappa dalla guerra e dalla morte, contro chi crede in un sistema giusto e democratico, nella solidarietà e nella distribuzione equa delle risorse. Nella confusione dei ruoli, la sinistra non parla più la lingua della sinistra. In un certo senso, gli attentati islamici di massa hanno terremotato i fragili equilibri democratici, ottenendo lo scopo strombazzato dagli editti del Califfo. Potremmo concludere che hanno vinto i terroristi (e chi li manovra)? No: basterebbe poco per rintuzzare queste grandi manovre. Rifondare la società, una società in cui i giovani si sentano a casa propria.