Musica

Solchi sperimentali in Italia, 50 anni di ricerca sonora e sperimentazioni

Il titolo è Solchi sperimentali in Italia, ed è già tutto un programma. L’ha scritto Antonello Cresti, giornalista e saggista e musicista lui stesso, ed è uscito per un editore dal peso specifico come Crac.

La prefazione spiega tutto: “Oggetto di scherno e dileggio per i suoi caratteri profondamente retrivi e imitativi, la scena musicale italiana è anche lo scrigno che racchiude centinaia di avventure nell’ambito della ricerca sonora e della sperimentazione, spesso riverite e ammirate anche in paesi stranieri. Solchi sperimentali in Italia tenta di riannodare tutti questi fili nascosti, per offrire la giusta visibilità a un panorama creativo di altissimo livello, capace di esibire assolute eccellenze nell’ambito della espressione musicale altra”.

Non resta che mettersi in viaggio lungo le centinaia di pagine che compongono questo volume appassionato e completo, ricco di rimandi, giochi di specchi, schede e (170) interviste ai protagonisti. Un periplo che inizia, e non avrebbe potuto essere altrimenti, con Dedicato a… dei Le Stelle di Mario Schifano, uscito nel 1967, la risposta del grande artista romano ad Andy Warhol e ai “suoi” Velvet Underground.

Un album seminale per tutta la psichedelia a venire. Memorabile la suite Le ultime parole di Brandimante, dall’Orlando Furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con tv accesa, senza volume), apoteosi del free form ante litteram. E poi la tassonomia completa della musica etnica, ambient, industrial, no wave, elettronica, metal tricolore, passando per la stagione del Rio (Rock in Opposition) che disegnò una sorta di nuova geopolitica del rock unito europeo.

Tra i mille nomi citati nel libro di Cresti, ricordiamo gli Aktuaka, che all’inizio degli anni Settanta infilarono due album impregnati di blues mediterraneo, anarchia acustica ed echi orientali e ancestrali. Ne era leader carismatico Walter Maioli, storico commesso della Ricordi di Milano. “Musica istintiva e istintuale, puro godimento sonoro, anche nei momenti più radicali e dissonanti” la loro. “Aliena a qualsiasi convenzione, la musica degli Aktuaka suona oggi, in tempi di ubriacatura etnica ipocrita e convenzionale, fresca e rivoluzionaria come allora, eterna come l’idea di tradizione che l’ha generata”. Sentite cosa dichiara Maioli per comprendere lo spirito che animava questi pionieri: “C’è stato un tempo della nostra storia in cui invece di andare in vacanza abbiamo investito i soldi per completare la nostra raccolta di dischi etnici. Così alla fine abbiamo compiuto un autentico giro del mondo in musica”.

Altra band da appuntare a memoria sono i Carnascialia (col loro album omonimo del 1979). Nati sulle ceneri del Canzoniere del Lazio, forti della presenza di geni in libera uscita come Demetrio Stratos, Mauro Pagani, Nunzia Tambura e Danilo Rea, sotto la guida di Pasquale Minieri, sperimentarono, per primi, una sorta di world music collettiva.

Impossibile prescindere dal primo Franco Battiato, quello freak, sperimentale, “instancabile performer e aggregatore di talenti”, prettamente strumentale dei Seventies pre-1979. L’artista siciliano riuscì nell’impresa di fondere Stockhausen e Mediterraneo, meditazione ed elettronica senza computer. Il capolavoro è Clic, anno di grazia 1974. E che dire della svolta elettronica di Claudio Rocchi, nel 1975, a colpi di sintetizzatore; dell’Albergo intergalattico spaziale (1978), rendez-vous tra Mino Di Martino e la teatrante Terra Di Benedetto, sintesi inaudita tra space rock, krautrock e sinfonismo; e dell’altro Battiato, quel mitico Juri Camisasca scoperto dal futuro divo pop di Centro di gravità permanente durante il servizio militare?

“L’incredibile voce di Camisasca, allucinata, estrema eppure ineccepibile, passava da sequenze robotiche a urli psicotici al sussurro”. Nulla a che vedere finanche con un Tim Buckley. Anche dal vivo Juri pareva un alieno. Prima della fuga, e del ritiro nella vita monastica.

Last but not least, gli Area, che ve lo diciamo a fare: “Il loro linguaggio trascende dai riferimenti jazzistici un po' troppo compassati di certo Canterbury rock per creare impasti sonori vulcanici” annota Antonello Cresti. Avanguardia pura, distillati di rock e folclore balcanico e mediorientale. Ce n’è da leggere, da ascoltare e da meravigliarsi, su questi solchi.